6 febbraio 2020

Le due facce del Novecento russo

La storia dell'URSS è costellata di artisti epurati o costretti a scendere a patti con una realtà oppressiva. Qualcuno è riuscito a diventare un gigante convivendo col regime e schivandone le purghe, altri, molti altri, sono stati silenziati nei modi più atroci, altri ancora sono dovuti fuggire. Tra costoro c'era anche il nonno del violoncellista Steven Isserlis, Julius, che dalla Russia se ne partì come ambasciatore culturale nel 1922 per non farvi più ritorno. Tuttavia ci fu anche chi scelse la strada più sicura, forse per convenienza, forse per autentica fede. Dmitrij Kabalevskij era un compositore del regime. Prudentemente ancorato a un linguaggio noto e frusto, il giusto patriottico – il giusto secondo i criteri del partito, beninteso – comodo, sia politicamente che artisticamente. Non osò percorsi divergenti da quello che era il cosiddetto "realismo socialista", una sorta di allineamento alla tradizione russa più rassicurante e inquadrabile, produsse diverse opere celebrative, dalla Terza sinfonia in memoria di Lenin (1933) a una serie di canzoni patriottiche, ed ebbe una catterdra al Conservatorio di Mosca. Insomma era un uomo dell’establishment, si direbbe oggi. A ben guardare ebbe anch’egli qualche screzio col grande inquisitore della cultura Andrej Ždanov, il quale nel triennio postbellico inasprì il clima censorio (si parla del periodo 1946-48, detto l’età di Ždanov o Ždanovscina), ma le conoscenze ai piani alti gli salvarono vita e reputazione.

Non si vuole liquidare Kabalevskij come fosse uno sprovveduto, perché non lo era affatto. Fu un solido artigiano dell'arte, che oltre ad una serie di lavori apprezzabili si cimentò anche in territori extra-musicali e produsse diversi programmi educativi per l’infanzia.



Sergej Prokof’ev invece stava sull'altra sponda del fiume, quella dei compositori sulla cui testa pendeva la lama del formalismo, una generica etichetta in cui si racchiudeva tutto ciò che spiaceva alla propaganda di partito, dall’individualismo al pessimismo, dal modernismo al rifiuto dell’eredità classica e popolare dell’arte. Il destino beffardo gli riservò la morte il 5 marzo del 1953, lo stesso giorno in cui si spegneva Stalin, così che il mondo quasi non se ne accorse.

Venendo al concerto di cui si riferisce, c'è un terzo nome in gioco. Leos Janáček apparteneva alla generazione precedente, quella di Strauss e Puccini, e per sua fortuna non dovette mai conoscere l'epoca in cui la sua Repubblica Ceca fu assoggettata all’influenza sovietica. Si spense nel ‘28 a Ostrava, cittadina della Moravia-Slesia la cui orchestra oggi porta il suo nome: Janáček Philharmonic Ostrava. Si parte proprio dal lui, con il Preludio alla sua opera estrema e postuma “Da una casa di morti” (Z mrtvého domu).

Come si accennava, anche Steven Isserlis ha origini russe, pur essendo britannico di nascita e formazione. Impostosi per virtuosismo e per il colore caratteristico del suo suono, è uno dei violoncellisti più celebri degli ultimi decenni, nonché interprete riconosciuto di quella che è forse l'opera più eseguita di Kabalevskij, il Concerto per violoncello e orchestra n.2 op. 77, e se ne comprendono le ragioni. Isserlis manovra il violoncello da ventriloquo, gli fa dire quel che vuole, lo fa parlare, piangere, belare, balza dal sussurro al grido, dal canto al graffio. Il suono è a tratti quasi acido, scorbutico, su una base vagamente nasale. Non è un violoncello dalla grande cavata il suo, non ha un timbro voluttuoso, ma esprime: è uno strumento che veicola un pensiero, anche in un concerto, quello di Kabalevskij, che di argomenti non ne ha poi troppi.

Le redini del concerto sono in mano a Dimitrij Jurowskij, il più giovane esponente di quella Jurowskij-family che, discendendo tramite l'intermedio Michail dal compositore Vladimir Mikhailovich Jurowskij, ha prodotto uno dei direttori più interessanti in circolazione, Vladimir (come il nonno), e appunto Dimitrij, suo fratello minore. Il quale Dimitrij sa come si dirige un'orchestra. Se in Kabalevskij sostanzialmente si preoccupa di accompagnare senza sopraffare il solista, che non produce mai un suono “grande”, in Prokof’ev dice la sua. Non è una Quinta che punge, ma tutta smussata e morbida, sostanzialmente lirica. Nessun isterismo, niente nevrosi, ma una lettura improntata a un’ironica leggerezza, in cui fluidità e cura del suono inteso come prodotto di una fine concertazione sono la cifra costitutiva. Sin dall’Andante iniziale Jurowskij non aggredisce ma blandisce e così procede, senza scudisciate né colpi di machete, ma addolcendo e lasciando che sia la musica a “parlare”, senza sottintesi.

Il gioco gli riesce senza rischi di monocromia o monotonia perché la Janáček Philharmonic è una signora orchestra, equilibrata, di bella pasta ben bilanciata tra corposità e trasparenza, precisissima per intonazione e struttura.

Pubblico sparuto (tutti a casa a guardare Sanremo?) ma festoso.

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