21 ottobre 2020

La prima di Beatrice Rana al Giovanni da Udine

Di questi tempi ogni alzata di sipario è una corsa a ostacoli. Senza considerare i casi più sfortunati in cui salta tutto, è sufficiente una piccola variazione delle norme di sicurezza, evenienza tutt’altro che infrequente, per scompaginare i programmi già ballerini di un teatro. È ciò che è successo al Giovanni da Udine, che a poche ore dall’apertura della stagione musicale ha dovuto sdoppiare il concerto dopo che le limitazioni si sono fatte più stringenti e dilazionare il pubblico tra la serata già in calendario e la mattina seguente. Fortunatamente Beatrice Rana non è tipo che si lascia intimorire e se c’è da replicare lo stesso programma a poche ore di distanza dice di sì. Programma ampio e impegnativo tra l’altro, un vero e proprio biglietto da visita per il nome più in vista della nuova generazione di pianisti italiani.

foto di Simon Fowler

Di fronte a Beatrice Rana ci si trova a conciliare due sensazioni apparentemente in contrasto: la prima, predominante, è che si ammiri una pianista completa, di quelle che padroneggiano la grammatica dello strumento in ogni cavillo al punto da poterla piegare a qualsiasi intenzione. Pianissimi di ogni gradazione, forti brillanti e grandi che scoccano come frustate, nuances, libertà agogiche sempre in pieno controllo e così via. C’è di contrasto l’indimostrabile impressione che abbia ampi margini per superare se stessa e che la sua perfezione, soppesata al microgrammo in ogni nota, aspetti di essere scardinata. Ad oggi Beatrice Rana è una meravigliosa pianista alla ricerca di una totale emancipazione dai vincoli che si è autoimposta. Non perché vi sia una qualche carenza oggettiva e quantificabile delle sue letture, tutt’altro, salvo forse – a sindacabilissimo gusto di chi scrive – la mancanza di un pizzico di audacia nello spezzare gli argini del “buongusto”, ma perché quel suo autocontrollo assoluto, rigidamente studiato nel minimo dettaglio, rischia di instradare delle qualità da fenomeno verso uno degli spauracchi più temibili per un artista: la non imprevedibilità. Minaccia insomma di precludere alla prima della classe lo scatto a fuoriclasse.

Certo è quasi paradossale fare le pulci all’artista e alla maestra Beatrice Rana, considerando che di mani così educate e onnipotenti ne girano poche. E anche di pensieri così compiuti: ascoltandola è chiaro che alla base del suo lavoro ci sia un’idea precisa dell’opera, di ogni singola opera, una visione organica che nasce da tanto studio e dalla voglia di fare le cose in coscienza e con puntiglio. Ma forse è proprio questo il freno. Sullo sfondo rimane la sensazione di un autocontrollo severissimo che limita fantasia e libertà, che è anche la libertà di prendersi dei rischi non calcolati e potenzialmente catastrofici, di provare a cedere qualche centimetro all’istinto.

Il suo Chopin dei quattro scherzi ad esempio è così perfetto e sorvegliato che sembra uscire direttamente dalla sala di registrazione, mentre c’è più colore nelle terzo libro di Ibéria, ove i continui cenni danzanti e pittoreschi emergono con tutta la leggerezza antiretorica che sa restituire loro solo il grande musicista, senza enfasi né distacco.

La valse è viceversa emblematico di quanto si diceva poc’anzi. Rana lo spiega benissimo: ogni dettaglio è al suo posto, ogni linea in vista, i detriti di valzer saltano fuori distintamente anche nel marasma più intricato, eppure manca quella leggerezza ariosa di chi scherza con la musica, buttandola fuori a folate inattese.

Successo molto caloroso a fine concerto.

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