17 febbraio 2020

Gil Shaham nel teatrone

Gil Shaham conosce il concerto Concerto op. 64 per violino e orchestra di Felix Mendelssohn-Bartholdy anche capovolto, d’altronde di tempo per metterlo a puntino, almeno dall'incisione giovanile accanto alla Philharmonia di Giuseppe Sinopoli, ne ha avuto parecchio, trent'anni buoni. Trent'anni che non sono passati invano, perché se il Mendelssohn del disco Deutsche Grammophon era così appassionato ed estroverso, quasi voluttuoso nell'espressività timbrica, il Shaham di oggi è un musicista per certi versi evoluto. Tecnicamente mostruoso, basta osservarlo sciorinare quelle cascate di sedicesimi dell’Allegro molto vivace, ma non esteriore. O meglio, esteriore lo è, e anche molto, nella mimica e nell'atteggiamento, perché più che un solista a volte sembra uno showman che gioca con l'orchestra, tra ammiccamenti e cenni danzanti. Però è uno showman che suona eccome, non fa finta. Quando c'è da attaccare l'Andante, ad esempio, avanza verso la platea, così da potersi permettere un suono piccolo piccolo, intimissimo. Gran finezza, visto che anche il suo Stradivari, come tutti gli altri violini della casa, non è strumento dal volume imponente, ma piuttosto di luminosità e bellezza canoviana che Shaham esalta al massimo livello.



Se gli è dato di esprimere una palette cromatica ed espressiva così variegata è anche per merito di James Gaffigan, quarantenne americano poco noto dalle nostre parti, il quale è un eccellente accompagnatore che sa guardare e assecondare il solista come si deve, ad esempio nel finale di primo movimento, quando Shaham imprime un'accelerazione stringente al tempo che il podio raccoglie e trasmette.

Però Gaffigan è anche un ottimo concertatore. Ne dà prova sin dall’Ouverture del concerto, Le Ebridi dello stesso Felix Mendelssohn-Bartholdy, eseguita e “spiegata” benissimo: preparare un’orchestra significa anche rendere giustizia alla raffinatezza di orchestrazione di un brano. Discorso analogo vale per il suo Sibelius (Sinfonia n. 2 op. 43) che è suonato molto bene, pesato negli equilibri e ben dosato negli scarti dinamici, anche se episodico, o semplicemente rapsodico. La costruzione frammentaria della sinfonia, fatta di temi che si incrociano, si mescolano e si perdono, fatica a trovare quella reductio ad unum che è prerogativa dei grandi interpreti di questo autore. Certo Gaffigan può fare affidamento su una macchina, i Luzerner Sinfonieorchester, che risponde ad ogni cenno. Orchestra scattante e pulita, capace di amalgamare al meglio i pianissimi come i forti, cui manca solo una più definibile identità timbrica per il salto di qualità definitivo.

Successo calorosissimo con il Valzer triste dello stesso Sibelius offerto come bis.

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