18 settembre 2020

Con Roberto Devereux alla Fenice si torna alla normalità, più o meno

Dopo il Roberto Deverux alla Fenice ho realizzato di aver visto molti più spettacoli in forma semi-scenica di quanti pensassi, evidentemente a mia insaputa. Si scherza, ma fino a un certo punto. La locandina infatti recita così, e in effetti qualcosa manca – scene e costumi, ad esempio: due piccoli dettagli – ma è un'assenza che in fin dei conti pesa poco. Forse perché sullo sfondo rimane comunque la coda dell'arca che in estate attraversava palco e platea, oggi riconsegnata ai suoi legittimi proprietari, che con le luci giuste non è un brutto vedere. Forse semplicemente perché c'era bisogno di tornare all'opera in modo quasi normale, dopo tutti questi mesi. Però la quantità e la qualità dell'azione teatrale vera e propria non sembrano affatto ridimensionate dal prefisso "semi", almeno rispetto a una recita belcantistica standard (luminose eccezioni escluse, ovviamente).



Per quel prodigio che qualcuno chiama serendipità, le contingenze del momento, che costringono Alfonso Antoniozzi a ripensare il suo Devereux sottraendo e sottraendo di nuovo, hanno l'effetto di un reset benefico del genere. Via tutto, si riparte da zero, il che significa fondare lo spettacolo su due cose: luci, e nel caso specifico il lavoro di Fabio Barettin è di grande suggestione, e recitazione dei cantanti. Una recitazione che deve scansare qualsiasi interazione ravvicinata, ma che non per questo è rinunciataria. Si gioca molto su distanze che si allargano e restringono, un po' a elastico, e sulla capacità degli interpreti di catalizzare su di sé tensione ed attenzione, cosa che a qualcuno riesce meravigliosamente, a qualcuno meno. Anche il coro completamente impalato, in nero, ha una sua potenza tragica malgrado l’immobilismo forzato, o forse proprio grazie ad esso. La sospensione dell'incredulità vacilla soltanto di fronte alle mascherine, d'obbligo anche negli spostamenti in scena delle masse, ma di questi tempi è un sacrificio che non pesa.

In sintesi, questo spettacolo nascerà anche da una serie di compromessi, ma funziona bene. È un Devereux ripulito dai luoghi comuni un po' baracconi di certo modo di intendere l'opera, che ovviamente deve rinunciare a ogni richiamo storico, al grande affresco, ma che in compenso punta la lente sul dramma intimo dei personaggi principali, che è un dramma di incomunicabilità. Il distanziamento coatto non fa che esasperare questa incapacità di venirsi incontro, di capirsi, rendendo di fatto tangibile quel fossato non solo metaforico che separa l'uno dall'altro. Quello cui si assiste è in definitiva, nonostante tutto, teatro. Se questa è la forma semi-scenica, evviva la forma semi-scenica.




Il resto è nelle mani dei cantanti. Roberta Mantegna ha voce luminosa e linea di canto (quasi) immacolata, bei fiati lunghi per reggere le frasi spianate e agilità sicure, ma non riesce a scavare in profondità tra le pieghe di Elisabetta, soprattutto tra quelle più inquietanti. È una Regina alle prime armi, che deve ancora farsi il pelo sullo stomaco, senza malizie né ombre, troppo monodimensionale e liliale.

Discorso opposto per Lilly Jørstad, Sara, che forse è ancora acerba per reggere senza colpo ferire la scrittura e che tende ad arrivare leggermente corta un po' dappertutto, in alto, in basso, nei fiati, però ha tutta la personalità che serve per dare uno spessore al suo personaggio. 

Alessandro Luongo fa un gran bel duca di Nottingham. "Chiaroscurato", si sarebbe detto qualche tempo fa, attento alla parola, alla dinamica e all'espressione del canto. Se alla voce manca forse una punta di brillantezza per svettare più imperiosa sull'orchestra, all'artista non si può rimproverare davvero niente. Enrico Iviglia e Luca Dall’Amico, rispettivamente Lord Cecil e Sir Gualtiero Raleigh, sono presenze pressoché stabili nel teatro veneziano e, al solito, si difendono con onore. 

Resta il protagonista, Enea Scala, che è una sorpresa. Non perché non si conoscessero già le qualità di questo tenore, quanto per la maturazione costante che sa mettere in campo prova dopo prova, sia in termini di vocalità, che ha ormai acquisito uno spessore timbrico e di peso nei centri come nel registro acuto senza perdere spavalderia, sia per la sicurezza con cui manovra il canto vero e proprio. 

Non è più una sorpresa da parecchio tempo invece Riccardo Frizza, che questo repertorio non solo lo conosce a menadito, ma lo respira. Il belcanto non si risolve solo nella concertazione – ottima, come la prova dell'orchestra di casa– e nel ritmo teatrale, che pur non scade mai, ma ci vuole quella capacità di dare aria alle linee melodiche, di muovere con flessibilità il battito e la dinamica, così che un semplice accompagnamento arpeggiato si faccia canto. Quando un direttore arriva a questo traguardo, nel repertorio italiano, ha vinto. Una gran prova.

Il coro della Fenice preparato da Claudio Marino Moretti è sempre un bel sentire, anche se i mesi di inattività paiono aver incrinato leggermente la compattezza dei giorni migliori. Il ritorno a regime, che si spera definitivo, gioverà anche a loro.

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