Il Boris Godunov in scena al Verdi di Trieste è uno specchio magico per guardare altrove. Non è il "nostro" teatro, probabilmente non lo sarebbe stato neppure trent'anni fa, ma piuttosto un viaggio nel tempo e in luoghi lontani, quelli della periferia sovietica. Teloni a tinte calde, icone e campane che piovono dal cielo, costumi più carnevaleschi che storici e improponibili "parrucchi". D'altronde un vecchio allestimento dell’Opera di Dnipro, a firma di Yurii Victorovych Chaika, non poteva che offrire qualcosa del genere.
Non è teatro indagatore o di psicologia, forse nemmeno affresco storico, perché l'arbitrarietà generale è troppa per crederci, ma un rito collettivo. È una rievocazione, la celebrazione di una tradizione che ritorna sempre uguale a se stessa non per leggere il presente ma per riallacciare un rapporto con le radici.
Una tradizione che è anche musicale. Qui c'è un direttore, Alexander Anissimov, che oltre a conoscere a menadito la materia sa dove mettere le mani e sa tenere insieme palco, coro (anzi, cori, perché c'è pure quello di Dnipro e si sente) e orchestra di casa, in buonissima serata tra l'altro.
E c'è un cast di importazione che ha pregi e difetti della cultura che esprime. Voci belle grosse ma spesso ruvide, comicità greve e caricaturale, ingenuità stereotipata della recitazione, ma anche molta coerenza. Quello è il mondo che devono rappresentare e quello fanno, chiedere o aspettarsi qualcosa di diverso sarebbe sciocco e forse persino sbagliato.
Insomma non è l’opera come la vorrei io, ma la rispetto.
Certo il protagonista Taras Shtonda è consumato mestierante che sa portare a casa scrittura e personaggio, così come gli altri due vecchi: il Pimen di Olesii Strizhak, che è in realtà un giovinetto, e il Šujskij di Eduard Srebnytski, ottantatreenne si dice (complimenti!). La coppia dei giovani, Vladyslav Goray (Grigorij) e Kateryna Tsimbaliuk (Marina), pensa più a cantare che a essere, ma se non altro entrambi hanno le qualità necessarie per farlo bene.
Quanto alle scelte editoriali, siamo in zona centone. Il Boris Godunov è una giungla di versioni e rimaneggiamenti e difficilmente se ne ascoltano due edizioni perfettamente sovrapponibili, però può essere utile avere una traccia di base per orientarsi.
La locandina parla di una fantomatica edizione 1872, seconda licenziata da Musorgskij, che tuttavia rimane solo a mo' di linea generale. C'è dentro un po' di Rimskij (l'impagabile chiusa bombastica del duettone di finto-amore, così meravigliosamente tamarra), un po' di 1869 (prima e originale versione dell'opera: il quadro di San Basilio che apre il Quarto atto arriva da lì) e, purtroppo, molti tagli.
Tagli non totalmente biasimevoli, considerando che l'obiettivo primario di chi mette in cantiere un'opera simile non è la filologia ma tenere sveglio e incollato alle poltrone il pubblico, cosa non banale in un repertorio ormai inusuale. Infatti molti dei pochi che hanno avuto l'ardire di presentarsi in sala sono fuggiti intervallo dopo intervallo.
Alla fine eravamo in quattro gatti, ma contenti.
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