Per capire dove voglia andare a parare la Semiramide in scena alla Fenice bisogna aspettare il secondo atto. Il primo Cecilia Ligorio lo butta un po' via, congelandolo in un affresco aureo che appaga l'occhio ma che dell'opera e dei personaggi racconta ben poco. Poi, come il sipario si alza sul duetto tra Semiramide e Assur, ecco la quadratura del cerchio. Lei, fin lì algida ai limiti dell’indifferenza, si mostra per quella che è: una donna che probabilmente non rifarebbe quello che ha fatto, che vive con un peso sulla coscienza che le toglie qualcosa ogni giorno ma che nonostante tutto continua a cedere a quell’attrazione malata per Assur che le ha tolto la luce dagli occhi. Da lì in avanti tutto scorre meglio: il duetto con Arsace e la sua aria sono essenziali ma sentiti, quelle del tenore e del basso due buoni momenti di teatro (anche perché Esposito è istrione fin nel midollo), il finale a palco vuoto, giocato solo su movimenti e luci soffuse, ha una sua antieffettistica efficacia. Certo la sensazione, alla fine della fiera, è che molto della colossale opera rimanga tra le pagine della partitura e che, a dispetto dell’oscurità che regna sul palco, le ombre inquietanti del Voltaire in salsa rossiniana rimangano in gran parte inespresse.
Ci sarebbe ulteriore margine di manovra insomma, e non è detto che nelle repliche che seguiranno le cose non vadano sciogliendosi e migliorando.
C'è meno opulenza nel secondo atto – la Babilonia tutta ori e dovizie che Nicolas Bovey racconta nel primo lascia spazio alla tenebra – ma in definitiva più teatro. Dicono poco invece le pantomime a sipario chiuso e i movimenti di danza, che non sono mal realizzati ma non aggiungono niente al racconto.
I costumi di Marco Piemontese non danno riferimenti temporali specifici, tendendo piuttosto a delineare delle maschere stereotipiche; certo quelli affidati al coro non brillano sempre per bellezza.
Jessica Pratt, come detto, è una Semiramide che campa sulla mestizia e sul rimpianto, il che funziona soprattutto nel secondo atto, ma necessariamente sacrifica qualcosa della complessità del personaggio (la sfera sensuale ad esempio non viene nemmeno sfiorata). La voce sta meglio in alto che in basso e pertanto non si sposa benissimo con la scrittura prevalentemente centrale della parte. Certo la qualità “strumentale” del canto, al netto di qualche sbavatura, è indiscutibile; ciò che la Pratt può (e dovrebbe) ulteriormente rifinire sono la varietà d’accento e di fraseggio, il lavoro sui colori e sulla parola e certa freddezza nella recitazione, tutti dettagli che amplierebbero lo spettro emotivo e psicologico del personaggio.
Teresa Iervolino, Arsace, ha bel timbro vellutato, più morbido che brillante, gran gusto musicale e ottime agilità. Soffre ancora un po' gli sfoghi più drammatici in cui si avverte la ricerca di un peso vocale che ancora non c'è, mentre si esalta nei passaggi più intimi, quelli in cui il figlio prevale sul guerriero, quindi in sostanza anche lei nel secondo atto.
Che Alex Esposito sia un signor cantante non è certo una scoperta, ma la sua grande scena che anticipa il finale lo ricorda ai più sbadati. Attacca un recitativo sconquassante per varietà di intenzioni e accenti, poi nel canto spianato c'è tutto quello che serve: dinamiche, legato e infine anche le agilità. Quello che nel complesso manca alla sua prova è il senso della misura, sia nella caratterizzazione del personaggio – d'accordo, questo Assur è un cattivone, per di più zoppo, ma a tratti scade nella parodia – sia nel canto vero e proprio. Esposito sceglie infatti una strada inedita per risolvere i recitativi, contaminandoli con il parlato, sporcandoli di graffi e accenti e, con la stessa veemenza, marca la recitazione. L’operazione è interessante e per certi versi spiazzante, anche perché quello che ne esce è un Assur di rottura, quasi mefistofelico, senz’altro “disturbante”, tutte cose che un intelligente lavoro di sottrazione finirebbe per esaltare anziché affievolire.
Enea Scala esce vincitore dalla sfida con una delle parti tenorili più atroci del repertorio: il suo Idreno ha volume, gusto, un bel medium, musicalmente è impeccabile e sale bene alle massacranti puntature. Che qualcuno dei tanti sopracuti esca schiacciato è il minimo sindacale.
Simon Lim è un Oroe roccioso e autorevole, Marta Mare un’Azema elegante e vocalmente a posto.
Imperioso Francesco Milanese nelle frasi dell’ombra di Nino (altro dettaglio che la regia risolve in modo discutibile, sia nelle intenzioni che nella pratica). Enrico Iviglia è un Mitrane squillante.
A reggere le fila dell'intero discorso c’è Riccardo Frizza, che si conferma direttore intelligente e di buonsenso. Sa che in questo repertorio ci sono momenti in cui l’orchestra può permettersi un passo in avanti, altri in cui deve farsi narratrice e dipingere, e altri ancora in cui è necessario scendere a patti con il canto per far quadrare i conti. Ebbene Frizza, per le quattro ore e mezza abbondanti di spettacolo – partitura in edizione critica integrale – non si perde il palco per un istante (neanche quando la Pratt tira un po' indietro nella coloratura della cabaletta Dolce pensiero) né allenta mai la tensione narrativa. L’Orchestra della Fenice è compatta e sbava pochissimo, anzi, va crescendo per qualità e morbidezza di pasta in corso d’opera.
Monumentale il coro preparato da Claudio Marino Moretti.
Alla fine è trionfo per tutti.
Recensione pubblicata su OperaClick.
La folle giornata è un contenitore che raccoglie recensioni teatrali e discografiche di musica classica, sia cameristica che sinfonica, e opera lirica.
23 ottobre 2018
17 ottobre 2018
Fra gli amplessi
Così fan tutte è l'opera che salverei dalla fine del mondo. Quel balzo dei violini dal mezzo forte al piano passa via inosservato (solo Solti nella sua prima incisione - peraltro bruttarella - lo fa sentire bene, e credo di averle ascoltate quasi tutte), eppure è una manifestazione assoluta del genio mozartiano. Dopo che Fiordiligi cede ("Fa di me quel che ti par") attacca un Andante: i due innamorati si sono scelti ed è il momento di passare dalle parole ai fatti. C'è un primo, timido tentativo di avvicinarsi, di toccarsi, poi un secondo, infine le linee iniziano a rincorrersi e intrecciarsi, quel che succede è inequivocabile. Però questo scarto, due battute, è ancor più sottile. È uno slancio istintivo che viene immediatamente represso, un avvicinarsi titubante ma irrefrenabile, è quel "che faccio, vado o non vado?" che ci siamo chiesti tutti almeno una volta. È una dinamica musicale che si fa dinamica psicologica, emotiva e teatrale. Così fan tutte non è un'opera, è un manuale di istruzioni dell'essere umano.
15 ottobre 2018
Falstaff all'Olimpico di Vicenza
Al Vicenza Opera Festival va in scena il Falstaff di Iván Fischer e, come d’incanto, anche quello di Giuseppe Verdi. D’accordo, è una provocazione, ma fino a un certo punto. Qui non si parla di ossequio al Verbo, inteso come libretto o partitura – anche se nel caso specifico la partitura è rispettata eccome! – ma di spirito dell’opera, di atmosfera, qualunque cosa possa significare. Un Falstaff che è innanzitutto commedia e non farsa proprio a partire dal gesto musicale, e poi lo è anche sul palco o quel che ne rimane. Per uno strano scherzo del melodramma, uno spettacolo d’impronta tradizionalissima e per di più in forma semiscenica, quindi senza quinte né fondali e con mezza orchestra dispersa tra i cantanti, diventa teatro al cubo, quasi il clima intimo e gli spazi contenuti della cavea semicircolare dell’Olimpico, che pare abbracciare la scena per entrarci, riuscissero a moltiplicare la reciproca immedesimazione di pubblico e artisti.
E poi c’è la mano di Fischer, il quale fa piazza pulita di vezzi e vizi della tradizione. Via pause e corone di routine, via rallentandi e compiacimenti ritmici assortiti, via tutte le pigre strizzate d’occhio al comodo o all’abitudine d’ascolto. Resta Verdi in sostanza, con tutto il suo genio musicale e teatrale ben esposto in vetrina. Un Verdi in salsa mozartiana per dimensioni dell’organico e leggerezza, sorridente ma ambiguo e sfaccettato, concertato con attenzione all’equilibrio più minuscolo e al dettaglio pulviscolare senza che la calligrafia prenda mai il sopravvento sul testo. L’eccentrica distribuzione dell’orchestra – archi sul palco e in buca, alle spalle del maestro, fiati e percussioni – restituisce un curioso effetto stereofonico che esalta quella prodigiosa scrittura in cui ogni nota sottotitola un gesto (il pizzicato sorprendentemente esposto del primo violoncello a dipingere l’“aria che vola”, solo per fare un esempio tra mille). E tanti, tantissimi colori, perché ogni frase è accompagnata da un tono diverso che sottintende una diversa intenzione.
In mezzo a tutto ciò Fischer non si perde una semicroma e “racconta” con virtuosismo quasi insolente la musica. I concertati scorrono via con una facilità persino spiazzante, tutto è limpido e chiarissimo senza che tanta levigatezza tradisca sentori di accademia o anche soltanto di superficialità.
La Budapest Festival Orchestra in assetto da camera è una delizia per le orecchie: tersa, ricca, corposa. Niente sbavature né frasi buttate via, solo musica ad altissimo livello.
Fischer firma, a quattro mani con Marco Gandini, anche una regia che di per sé non inventa niente di sconvolgente, ma che c’è e funziona. È vero, molte trovate sono viste e riviste, qualcuna anche un po’ ammuffita, ma in un Falstaff che guarda all’altro ieri ci possono stare, anche perché in compenso c’è un’attenzione alla recitazione e al ritmo della narrazione tutt’altro che banale. Pur su un palco disadorno, con le scene (di Andrea Tocchio) ridotte al minimo e dei costumi belli ma vagamente carnascialeschi (Anna Biagiotti), la sospensione dell'incredulità non esita un istante e si finisce tutti per credere d’essere catapultati in questa strana Windsor palladiana.
Non manca poi qualche trovata d’effetto: il direttore d’orchestra che gioca a fare l’oste della Giarrettiera e di tanto in tanto “cortocircuita” con la recita pare divertire molto il pubblico.
La vulgata vuole che Falstaff sia opera da direttore d’orchestra (come se poi le altre non lo fossero!) ma non di meno esige un cast di musicisti e attori di prima qualità che qui, con diversi gradi di eccellenza, non mancano.
Ambrogio Maestri è il Falstaff dei nostri giorni. La parte gli calza a pennello e l’ormai lunga frequentazione ha limato il dettaglio del dettaglio. Maestri dà senso e colore a ogni parola, giocando anche sulla dinamica e talvolta magari calcando un po’ la mano, ma il personaggio c’è tutto: un Sir John che centra quell’ineffabile mezza via shakespeariana in cui i registri si mescolano e contaminano a vicenda. Un po’ intristito e un po’ patetico, un po’ bonario e velatamente cinico, Maestri cammina sul filo di una radente ambiguità non senza un’irresistibile simpatia di fondo. La voce si impone ancora per ampiezza soprattutto nei centri e negli acuti a pieni polmoni, mentre soffre un po’ nei falsetti e nei pianissimi ad alta quota, ma sono inezie che nulla tolgono a una grande caratterizzazione.
Anche Tassis Christoyannis è un Ford di lungo corso, e si sente. La voce c’è ed è a posto, ma anche nel suo caso il canto non è mai il fine ma un mezzo a servizio del teatro, come dovrebbe essere sempre.
Eva Mei soffre un po’ la scrittura di Alice in basso mentre svetta ancora con insolenza quando la tessitura sale, ma è soprattutto il genere di artista che non si canta mai addosso, né spreca una parola o un gesto.
Xabier Anduaga, giovane tenore classe 1995, è un signor Fenton. Voce di bel timbro fresco e, a dispetto del gran volume, una capacità di sfumare e legare che promette benissimo. Da tenere d’occhio per domani e dopodomani: ne sentiremo parlare. Sua degna controparte la Nannetta di Sylvia Schwartz, vocalità leggera ma non priva di corpo ed emissione d’alta scuola che dà pieno sfoggio di sé nei filati acuti.
Ottima anche la Quickly di Yvonne Naef: bel velluto e una cavata da violoncello al servizio di un gusto che bandisce ogni effettaccio (finalmente!).
Laura Polverelli è una Meg Page di lusso, così come convince senza riserve lo squillante Dottor Cajus di Francesco Pittari. Completano degnamente il cast Stuart Patterson (Bardolfo), che sa essere caratterista senza scadere nella macchietta, e Giovanni Battista Parodi, Pistola dalle scarpe grosse e dal canto fino.
Due parole le merita il coro che non c’è, almeno nominalmente, ma c’è eccome: nel terzo atto una manciata di violiniste abbandona il leggio per intonare a passo di danza i versi delle ninfe. Se lo fanno come lo fanno, cioè cantando splendidamente, il merito è senz’altro di György Philipp che le ha preparate, ma anche della loro statura artistica. Il che vale più o meno per tutti i professori della BFO, non ultimo quel violinista di fila che imbraccia la chitarra per accompagnare (e come!) l’ingresso di Falstaff a casa Ford.
Alla fine è trionfo fragoroso che rischia di far crollare le gradinate lignee dell’Olimpico, tra le apprensioni delle maschere che osservano impotenti un pubblico indisciplinato che pesta forsennatamente i piedi.
Recensione pubblicata su OperaClick
![]() |
Foto: Kata Schiller |
E poi c’è la mano di Fischer, il quale fa piazza pulita di vezzi e vizi della tradizione. Via pause e corone di routine, via rallentandi e compiacimenti ritmici assortiti, via tutte le pigre strizzate d’occhio al comodo o all’abitudine d’ascolto. Resta Verdi in sostanza, con tutto il suo genio musicale e teatrale ben esposto in vetrina. Un Verdi in salsa mozartiana per dimensioni dell’organico e leggerezza, sorridente ma ambiguo e sfaccettato, concertato con attenzione all’equilibrio più minuscolo e al dettaglio pulviscolare senza che la calligrafia prenda mai il sopravvento sul testo. L’eccentrica distribuzione dell’orchestra – archi sul palco e in buca, alle spalle del maestro, fiati e percussioni – restituisce un curioso effetto stereofonico che esalta quella prodigiosa scrittura in cui ogni nota sottotitola un gesto (il pizzicato sorprendentemente esposto del primo violoncello a dipingere l’“aria che vola”, solo per fare un esempio tra mille). E tanti, tantissimi colori, perché ogni frase è accompagnata da un tono diverso che sottintende una diversa intenzione.
In mezzo a tutto ciò Fischer non si perde una semicroma e “racconta” con virtuosismo quasi insolente la musica. I concertati scorrono via con una facilità persino spiazzante, tutto è limpido e chiarissimo senza che tanta levigatezza tradisca sentori di accademia o anche soltanto di superficialità.
La Budapest Festival Orchestra in assetto da camera è una delizia per le orecchie: tersa, ricca, corposa. Niente sbavature né frasi buttate via, solo musica ad altissimo livello.
![]() |
Foto: Kata Schiller |
Fischer firma, a quattro mani con Marco Gandini, anche una regia che di per sé non inventa niente di sconvolgente, ma che c’è e funziona. È vero, molte trovate sono viste e riviste, qualcuna anche un po’ ammuffita, ma in un Falstaff che guarda all’altro ieri ci possono stare, anche perché in compenso c’è un’attenzione alla recitazione e al ritmo della narrazione tutt’altro che banale. Pur su un palco disadorno, con le scene (di Andrea Tocchio) ridotte al minimo e dei costumi belli ma vagamente carnascialeschi (Anna Biagiotti), la sospensione dell'incredulità non esita un istante e si finisce tutti per credere d’essere catapultati in questa strana Windsor palladiana.
Non manca poi qualche trovata d’effetto: il direttore d’orchestra che gioca a fare l’oste della Giarrettiera e di tanto in tanto “cortocircuita” con la recita pare divertire molto il pubblico.
![]() |
Foto: Kata Schiller |
La vulgata vuole che Falstaff sia opera da direttore d’orchestra (come se poi le altre non lo fossero!) ma non di meno esige un cast di musicisti e attori di prima qualità che qui, con diversi gradi di eccellenza, non mancano.
Ambrogio Maestri è il Falstaff dei nostri giorni. La parte gli calza a pennello e l’ormai lunga frequentazione ha limato il dettaglio del dettaglio. Maestri dà senso e colore a ogni parola, giocando anche sulla dinamica e talvolta magari calcando un po’ la mano, ma il personaggio c’è tutto: un Sir John che centra quell’ineffabile mezza via shakespeariana in cui i registri si mescolano e contaminano a vicenda. Un po’ intristito e un po’ patetico, un po’ bonario e velatamente cinico, Maestri cammina sul filo di una radente ambiguità non senza un’irresistibile simpatia di fondo. La voce si impone ancora per ampiezza soprattutto nei centri e negli acuti a pieni polmoni, mentre soffre un po’ nei falsetti e nei pianissimi ad alta quota, ma sono inezie che nulla tolgono a una grande caratterizzazione.
Anche Tassis Christoyannis è un Ford di lungo corso, e si sente. La voce c’è ed è a posto, ma anche nel suo caso il canto non è mai il fine ma un mezzo a servizio del teatro, come dovrebbe essere sempre.
Eva Mei soffre un po’ la scrittura di Alice in basso mentre svetta ancora con insolenza quando la tessitura sale, ma è soprattutto il genere di artista che non si canta mai addosso, né spreca una parola o un gesto.
Xabier Anduaga, giovane tenore classe 1995, è un signor Fenton. Voce di bel timbro fresco e, a dispetto del gran volume, una capacità di sfumare e legare che promette benissimo. Da tenere d’occhio per domani e dopodomani: ne sentiremo parlare. Sua degna controparte la Nannetta di Sylvia Schwartz, vocalità leggera ma non priva di corpo ed emissione d’alta scuola che dà pieno sfoggio di sé nei filati acuti.
Ottima anche la Quickly di Yvonne Naef: bel velluto e una cavata da violoncello al servizio di un gusto che bandisce ogni effettaccio (finalmente!).
Laura Polverelli è una Meg Page di lusso, così come convince senza riserve lo squillante Dottor Cajus di Francesco Pittari. Completano degnamente il cast Stuart Patterson (Bardolfo), che sa essere caratterista senza scadere nella macchietta, e Giovanni Battista Parodi, Pistola dalle scarpe grosse e dal canto fino.
![]() |
Foto: Kata Schiller |
Due parole le merita il coro che non c’è, almeno nominalmente, ma c’è eccome: nel terzo atto una manciata di violiniste abbandona il leggio per intonare a passo di danza i versi delle ninfe. Se lo fanno come lo fanno, cioè cantando splendidamente, il merito è senz’altro di György Philipp che le ha preparate, ma anche della loro statura artistica. Il che vale più o meno per tutti i professori della BFO, non ultimo quel violinista di fila che imbraccia la chitarra per accompagnare (e come!) l’ingresso di Falstaff a casa Ford.
Alla fine è trionfo fragoroso che rischia di far crollare le gradinate lignee dell’Olimpico, tra le apprensioni delle maschere che osservano impotenti un pubblico indisciplinato che pesta forsennatamente i piedi.
Recensione pubblicata su OperaClick
![]() |
Foto: Kata Schiller |
26 settembre 2018
È di Salonen il Bruckner di domani?
A cinque anni dal debutto, Esa-Pekka Salonen e la sua Philharmonia Orchestra sono tornati al Teatro Nuovo Giovanni da Udine per inaugurare la Stagione 2018/19. Ne ho scritto qui, su OperaClick.
I grandi artisti sono quelli che aprono nuove vie dove gli altri si accontenterebbero di ripercorrere i vecchi sentieri. Esa-Pekka Salonen è quel tipo di uomo, un esploratore del suono e dell’interpretazione musicale, il genere di direttore capace di rinsaldare e rinnovare il rapporto di contiguità che c’è tra il grande repertorio e la contemporaneità.
Anton Bruckner, sulle cui spalle grava ancora il peso di una tradizione esecutiva gloriosa ma invadente, ha bisogno di interpreti di tal pasta, che abbiano il coraggio di svincolarlo dall’onda lunga della sensibilità tardoromantica: vibratoni struggenti e sonorità mastodontiche, seriosità ed esaltazione dell’architettura, drammaticità e trionfalismo. Tinte forti e testosterone.
Poi ecco che arriva Salonen a sparigliare le carte. La sua Sinfonia n. 7 in mi maggiore non è solo alleggerita e spogliata di ogni retorica, flessibile come una betulla mossa dal vento, è innanzitutto rivelatoria. Salonen esalta la continua invenzione della scrittura, ne accentua la plasticità e la vivacità con una tecnica di narrazione che pare cinematografica: non è il solito Bruckner catturato in campo lungo per mettere bene in mostra tutta la sua possanza e la sua marmorea bellezza, ma un continuo scorrere di dettagli su dettagli. L’obiettivo balza da un’espressione all’altra, zoomando sul minimo particolare e cavandolo fuori dal tessuto orchestrale. Quella di Salonen, ancor prima che una grande concertazione, è una lezione di “regia musicale”, di utilizzo dell’inquadratura. Ora i violini saltellano, ora seducono, ora i contrabbassi borbottano corrucciati, ora muggiscono, gli ottoni ora svettano in trionfo, ora scattano in sferzate minacciose. Non c’è tregua e non c’è monotonia: il grande vecchio, monolitico Bruckner si scompone in uno sciame di microframmenti che si ammucchiano, dialogano, mutano, bisticciano e si riappacificano continuamente. Ogni inciso ha una sua caratterizzazione, un suo colore e fraseggio e, soprattutto, un senso nella dinamica cangiante del tutto.
Non è meno entusiasmante la lettura della Notte Trasfigurata (Verklärte Nacht) nella versione per orchestra d’archi. I colori non si contano, la scrittura cameristica è esaltata dalla trasparenza e dalla ricchezza di risorse dei professori della Philharmonia Orchestra (su tutti la straordinaria prima viola di Yukiko Ogura) e illuminata dalle improvvise folate di brezza del podio. Quando la musica si spegne nel silenzio – Schönberg scrive pppp per gli archi con sordina e Salonen lo prende alla lettera – si resta senza fiato.
Insomma il Teatro Nuovo Giovanni da Udine ha inaugurato la sua stagione in grande stile, e non è una novità.
Resta la Philharmonia, che non è solo la straordinaria orchestra che tutti conoscono, ma pare sempre più un prolungamento del braccio di Salonen, tanto sono consolidate la complicità e la capacità di respirare insieme. Sulle qualità dei musicisti c’è poco da aggiungere, basterebbe quell’attacco dei violini nella Settima, bisbigliato ai limiti dell’udibile, per darne conto. Gli archi sono un prodigio di delicatezza e sfumature, i legni di nitore, gli ottoni di brillantezza (con i corni un passo indietro, probabilmente per via dei molti aggiunti in organico).
A fine concerto è trionfo che si prolunga finché Salonen non congeda l’orchestra.
Recensione pubblicata su OperaClick
I grandi artisti sono quelli che aprono nuove vie dove gli altri si accontenterebbero di ripercorrere i vecchi sentieri. Esa-Pekka Salonen è quel tipo di uomo, un esploratore del suono e dell’interpretazione musicale, il genere di direttore capace di rinsaldare e rinnovare il rapporto di contiguità che c’è tra il grande repertorio e la contemporaneità.
Anton Bruckner, sulle cui spalle grava ancora il peso di una tradizione esecutiva gloriosa ma invadente, ha bisogno di interpreti di tal pasta, che abbiano il coraggio di svincolarlo dall’onda lunga della sensibilità tardoromantica: vibratoni struggenti e sonorità mastodontiche, seriosità ed esaltazione dell’architettura, drammaticità e trionfalismo. Tinte forti e testosterone.
Poi ecco che arriva Salonen a sparigliare le carte. La sua Sinfonia n. 7 in mi maggiore non è solo alleggerita e spogliata di ogni retorica, flessibile come una betulla mossa dal vento, è innanzitutto rivelatoria. Salonen esalta la continua invenzione della scrittura, ne accentua la plasticità e la vivacità con una tecnica di narrazione che pare cinematografica: non è il solito Bruckner catturato in campo lungo per mettere bene in mostra tutta la sua possanza e la sua marmorea bellezza, ma un continuo scorrere di dettagli su dettagli. L’obiettivo balza da un’espressione all’altra, zoomando sul minimo particolare e cavandolo fuori dal tessuto orchestrale. Quella di Salonen, ancor prima che una grande concertazione, è una lezione di “regia musicale”, di utilizzo dell’inquadratura. Ora i violini saltellano, ora seducono, ora i contrabbassi borbottano corrucciati, ora muggiscono, gli ottoni ora svettano in trionfo, ora scattano in sferzate minacciose. Non c’è tregua e non c’è monotonia: il grande vecchio, monolitico Bruckner si scompone in uno sciame di microframmenti che si ammucchiano, dialogano, mutano, bisticciano e si riappacificano continuamente. Ogni inciso ha una sua caratterizzazione, un suo colore e fraseggio e, soprattutto, un senso nella dinamica cangiante del tutto.
Non è meno entusiasmante la lettura della Notte Trasfigurata (Verklärte Nacht) nella versione per orchestra d’archi. I colori non si contano, la scrittura cameristica è esaltata dalla trasparenza e dalla ricchezza di risorse dei professori della Philharmonia Orchestra (su tutti la straordinaria prima viola di Yukiko Ogura) e illuminata dalle improvvise folate di brezza del podio. Quando la musica si spegne nel silenzio – Schönberg scrive pppp per gli archi con sordina e Salonen lo prende alla lettera – si resta senza fiato.
Insomma il Teatro Nuovo Giovanni da Udine ha inaugurato la sua stagione in grande stile, e non è una novità.
Resta la Philharmonia, che non è solo la straordinaria orchestra che tutti conoscono, ma pare sempre più un prolungamento del braccio di Salonen, tanto sono consolidate la complicità e la capacità di respirare insieme. Sulle qualità dei musicisti c’è poco da aggiungere, basterebbe quell’attacco dei violini nella Settima, bisbigliato ai limiti dell’udibile, per darne conto. Gli archi sono un prodigio di delicatezza e sfumature, i legni di nitore, gli ottoni di brillantezza (con i corni un passo indietro, probabilmente per via dei molti aggiunti in organico).
A fine concerto è trionfo che si prolunga finché Salonen non congeda l’orchestra.
Recensione pubblicata su OperaClick
25 settembre 2018
Baroque Unlimited, Junges Musikpodium incontra il Festival Risonanze
Il Friuli è terra di confini, incroci e rimescolamenti. Verrebbe da pensare che l’introversione rocciosa del suo popolo sia un effetto paradosso dei millenni di scorribande e passaggi di mano, quasi si potesse trovare una via di salvezza, o rinsaldare la propria identità, nell’impermeabilità e nel distacco. Tuttavia quest’angolo d’Italia che vive tra le Alpi e il Mediterraneo, con un occhio alla Mitteleuropa e l’altro puntato sui Balcani, il bisogno di guardarsi intorno e dialogare con il circostante ce l’ha da sempre, nonostante le dissimulazioni.
Capita così che un festival regionale nato tra le cime della Carnia, Risonanze, stringa la mano a un’Accademia italo-germanica per raccontare la musica barocca di ascendenza veneziana. Messa giù così sembra complicata, ma non lo è. L’associazione Junges Musikpodium organizza da una ventina d’anni dei laboratori di approfondimento per giovani musicisti con il duplice obiettivo di aiutarli a crescere e, parallelamente, di rinsaldare quello storico rapporto che univa Venezia alla corte di Dresda, non a caso due capitali europee della musica nei tempi che furono. Una manciata di concerti in giro per l’Italia, poi a Dresda stessa e a Berlino e, nel frattempo, una puntata nel cartellone di Risonanze. Il crocevia di questo ginepraio di relazioni è Udine con il suo Castello, che ha accolto i musicisti di Junges Musikpodium per un centone di composizioni barocche collocabili a cavallo dei secoli XVII e XVIII. In cartellone musiche di Vivaldi, Caldara, Galuppi e Hasse.
Due parole il Festival Risonanze le merita: nasce a Malborghetto-Valbruna, vicino al confine nordorientale che separa Italia e Austria, dove cresce l’abete rosso di risonanza della Valcanale, con l’idea di riportare gli strumenti nei boschi in cui sono nati, almeno idealmente. Gioca in trasferta nel concerto di cui si riferisce, per lo meno rispetto agli appuntamenti del Festival vero e proprio, che si svolge nelle prime settimane d’estate.
I musicisti qui impegnati sono per lo più giovani studenti, ma liquidarli come tali farebbe torto alla loro professionalità che ha poco o nulla da invidiare ai mestieranti di lungo corso. Scattanti e limpidi in ensemble, sicuri e precisissimi nei momenti solistici (almeno quelli a cui toccano), sono la prova tangibile di come molte piccole realtà, spesso poco note, sappiano fare musica come si deve, rendendo piena giustizia a pubblico e compositori. È giovane anche Giulia Bolcato, soprano, che padroneggia con disinvoltura le agilità nella sua aria di furore, svetta con insolenza in acuto (il grave è ancora fioco, ma si farà) e soprattutto cesella e “dice” con sensibilità. Sono invece più esperti Alberto Busettini e Ivano Zanenghi che, al cembalo e al liuto, reggono il basso continuo.
Alessandro Cappelletto si esalta nel virtuosismo del Concerto per violino in re maggiore RV 232 centrando tutta l’olimpica brillantezza che Vivaldi pretende, senza certi eccessi di nervosismo in cui ci si imbatte più spesso di quanto si vorrebbe.
Massimo Raccanelli regge le fila dell’insieme garantendo coesione, pulizia esecutiva e una tensione narrativa tutt’altro che banale.
Una bella serata, il pubblico del Salone del Parlamento applaude e ringrazia, giustamente.
Capita così che un festival regionale nato tra le cime della Carnia, Risonanze, stringa la mano a un’Accademia italo-germanica per raccontare la musica barocca di ascendenza veneziana. Messa giù così sembra complicata, ma non lo è. L’associazione Junges Musikpodium organizza da una ventina d’anni dei laboratori di approfondimento per giovani musicisti con il duplice obiettivo di aiutarli a crescere e, parallelamente, di rinsaldare quello storico rapporto che univa Venezia alla corte di Dresda, non a caso due capitali europee della musica nei tempi che furono. Una manciata di concerti in giro per l’Italia, poi a Dresda stessa e a Berlino e, nel frattempo, una puntata nel cartellone di Risonanze. Il crocevia di questo ginepraio di relazioni è Udine con il suo Castello, che ha accolto i musicisti di Junges Musikpodium per un centone di composizioni barocche collocabili a cavallo dei secoli XVII e XVIII. In cartellone musiche di Vivaldi, Caldara, Galuppi e Hasse.
Due parole il Festival Risonanze le merita: nasce a Malborghetto-Valbruna, vicino al confine nordorientale che separa Italia e Austria, dove cresce l’abete rosso di risonanza della Valcanale, con l’idea di riportare gli strumenti nei boschi in cui sono nati, almeno idealmente. Gioca in trasferta nel concerto di cui si riferisce, per lo meno rispetto agli appuntamenti del Festival vero e proprio, che si svolge nelle prime settimane d’estate.
I musicisti qui impegnati sono per lo più giovani studenti, ma liquidarli come tali farebbe torto alla loro professionalità che ha poco o nulla da invidiare ai mestieranti di lungo corso. Scattanti e limpidi in ensemble, sicuri e precisissimi nei momenti solistici (almeno quelli a cui toccano), sono la prova tangibile di come molte piccole realtà, spesso poco note, sappiano fare musica come si deve, rendendo piena giustizia a pubblico e compositori. È giovane anche Giulia Bolcato, soprano, che padroneggia con disinvoltura le agilità nella sua aria di furore, svetta con insolenza in acuto (il grave è ancora fioco, ma si farà) e soprattutto cesella e “dice” con sensibilità. Sono invece più esperti Alberto Busettini e Ivano Zanenghi che, al cembalo e al liuto, reggono il basso continuo.
Alessandro Cappelletto si esalta nel virtuosismo del Concerto per violino in re maggiore RV 232 centrando tutta l’olimpica brillantezza che Vivaldi pretende, senza certi eccessi di nervosismo in cui ci si imbatte più spesso di quanto si vorrebbe.
Massimo Raccanelli regge le fila dell’insieme garantendo coesione, pulizia esecutiva e una tensione narrativa tutt’altro che banale.
Una bella serata, il pubblico del Salone del Parlamento applaude e ringrazia, giustamente.
11 settembre 2018
La Staatskapelle Dresden in concerto con Alan Gilbert e Lisa Batiashvili
Ammettiamolo, qualche sentore di accademia – il pessimo gioco di parole non è voluto – dopo il primo movimento del Concerto per violino e orchestra n.2 in sol minore Op. 63 di Sergej Prokof’ev lo si è avvertito. D’altronde è comune che il divino abbia qualcosa a che fare con l’indifferenza, o se non vera e propria indifferenza la si può chiamare gelida perfezione. Poi però attacca l’Andante assai e con il dialogo tra il violino solista di una Lisa Batiashvili in stato di grazia e i primi della Staatskapelle Dresden il gelido marmo inizia a destarsi e a prendere vita. A questo punto l’unica Accademia che rimane in mente è quella che dà il nome al pregiatissimo Settembre veronese, una delle iniziative musicali più stimolanti su scala nazionale da qualche anno a questa parte, perché sul palco del Filarmonico inizia ad ascoltarsi la musica vera, a un livello tra i più alti immaginabili.
Lei ha quel suono tendenzialmente carnale ma penetrante che le conosciamo, con qualche punta graffiante e la plasticità mutevole di infinite screziature, ma anche il dominio dello strumento che basta a mangiarsi ogni insidia tecnica come fosse una bazzecola. Fraseggia imprimendo al violino una tensione mai nervosa che dà carattere alla musica senza sconfinare nella schizofrenia, che la rende viva pur nella sostanziale assenza della minima umana imperfezione. E poi sa modellare dinamica, timbro, intenzione. Insomma la Batiashvili è una artista di prima classe, ma si sapeva già.
La Staatskapelle d’altro canto altro non è che la macchina straordinaria che il mondo conosce da mezzo millennio. Anzi, è qualcosa di più: è un prodigio di colori – gli archi su tutti sono impressionanti per duttilità timbrica – che va ben oltre la qualità sopraffina dell’amalgama e la compattezza. Difficile ascoltare, anche tra le orchestre di primissima fascia, una tale leggerezza di suono, che non perde mai trasparenza e struttura in qualsiasi gradazione dinamica.
Che il pubblico si scateni (guadagnandosi una peculiare trascrizione per violino solista e orchestra de I Capuleti e i Montecchi dal famosissimo balletto di Prokof’ev) non sorprende affatto.
Al netto delle qualità di violinista e orchestra, qualche merito va riconosciuto anche al direttore, che nella fattispecie è un grande direttore. Alan Gilbert non gode forse in Europa della fama che meriterebbe, ma oltreoceano è una stella di prima grandezza, al punto da essersi meritato il timone della New York Philharmonic per un decennio. Non sorprende dunque che l’approccio alla materia sia molto “americano”, nell’accezione più nobile del termine: Gilbert arriva da quella scuola e si sente, anche nella Prima sinfonia di Mahler che segue. Estroversione, tecnica mostruosa e precisione assoluta (dirige a memoria e non si perde un attacco), così come totale è il controllo delle sonorità e del ventaglio dinamico.
Tutto ciò si rivela in un approccio alla musica tendenzialmente apollineo che fa della chiarezza espositiva e della levigatezza le sue cifre distintive. Non che la questione si risolva in un’esibizione di magistero tecnico, sarebbe ingiusto sostenerlo e pensarlo, anche se ad un primo momento il sospetto lo si avverte. In realtà quello di Gilbert è un modo di fare musica che rifugge il grande gesto e la sottolineatura estenuata per lavorare piuttosto di cesello. Sembra partire dall’idea che il compito di un direttore sia quello di tradurre in suono il testo scritto con la massima fedeltà possibile, senza il bisogno di leggerci un sottotesto o imprimervi una visione che sia necessariamente rivoluzionaria o personale. Ciò non comporta la riduzione del direttore a spartitraffico, tutt’altro. Gilbert gioca sul dettaglio, su una delicatissima flessibilità di tempi e sviluppo, sul minimo scarto: basti vedere come pennella il fraseggiare degli archi nel secondo movimento o come anticipa, con un cenno della sinistra, i re acuti dell’oboe nel suo tema che apre il terzo.
Quello che si ascolta è in definitiva un Mahler talmente equilibrato e cesellato che pare mixato alla console, che rinuncia forse a un pizzico di vertigine e di ombra a favore di una luce abbagliante.
L’orchestra si concede qualche minuscola sbavatura degli ottoni in apertura per poi attestarsi su quote siderali.
Pubblico in delirio salutato da un Preludio al terzo atto del Lohengrin elettrizzante.
Recensione pubblicata su OperaClick
Lei ha quel suono tendenzialmente carnale ma penetrante che le conosciamo, con qualche punta graffiante e la plasticità mutevole di infinite screziature, ma anche il dominio dello strumento che basta a mangiarsi ogni insidia tecnica come fosse una bazzecola. Fraseggia imprimendo al violino una tensione mai nervosa che dà carattere alla musica senza sconfinare nella schizofrenia, che la rende viva pur nella sostanziale assenza della minima umana imperfezione. E poi sa modellare dinamica, timbro, intenzione. Insomma la Batiashvili è una artista di prima classe, ma si sapeva già.
La Staatskapelle d’altro canto altro non è che la macchina straordinaria che il mondo conosce da mezzo millennio. Anzi, è qualcosa di più: è un prodigio di colori – gli archi su tutti sono impressionanti per duttilità timbrica – che va ben oltre la qualità sopraffina dell’amalgama e la compattezza. Difficile ascoltare, anche tra le orchestre di primissima fascia, una tale leggerezza di suono, che non perde mai trasparenza e struttura in qualsiasi gradazione dinamica.
Che il pubblico si scateni (guadagnandosi una peculiare trascrizione per violino solista e orchestra de I Capuleti e i Montecchi dal famosissimo balletto di Prokof’ev) non sorprende affatto.
Al netto delle qualità di violinista e orchestra, qualche merito va riconosciuto anche al direttore, che nella fattispecie è un grande direttore. Alan Gilbert non gode forse in Europa della fama che meriterebbe, ma oltreoceano è una stella di prima grandezza, al punto da essersi meritato il timone della New York Philharmonic per un decennio. Non sorprende dunque che l’approccio alla materia sia molto “americano”, nell’accezione più nobile del termine: Gilbert arriva da quella scuola e si sente, anche nella Prima sinfonia di Mahler che segue. Estroversione, tecnica mostruosa e precisione assoluta (dirige a memoria e non si perde un attacco), così come totale è il controllo delle sonorità e del ventaglio dinamico.
Tutto ciò si rivela in un approccio alla musica tendenzialmente apollineo che fa della chiarezza espositiva e della levigatezza le sue cifre distintive. Non che la questione si risolva in un’esibizione di magistero tecnico, sarebbe ingiusto sostenerlo e pensarlo, anche se ad un primo momento il sospetto lo si avverte. In realtà quello di Gilbert è un modo di fare musica che rifugge il grande gesto e la sottolineatura estenuata per lavorare piuttosto di cesello. Sembra partire dall’idea che il compito di un direttore sia quello di tradurre in suono il testo scritto con la massima fedeltà possibile, senza il bisogno di leggerci un sottotesto o imprimervi una visione che sia necessariamente rivoluzionaria o personale. Ciò non comporta la riduzione del direttore a spartitraffico, tutt’altro. Gilbert gioca sul dettaglio, su una delicatissima flessibilità di tempi e sviluppo, sul minimo scarto: basti vedere come pennella il fraseggiare degli archi nel secondo movimento o come anticipa, con un cenno della sinistra, i re acuti dell’oboe nel suo tema che apre il terzo.
Quello che si ascolta è in definitiva un Mahler talmente equilibrato e cesellato che pare mixato alla console, che rinuncia forse a un pizzico di vertigine e di ombra a favore di una luce abbagliante.
L’orchestra si concede qualche minuscola sbavatura degli ottoni in apertura per poi attestarsi su quote siderali.
Pubblico in delirio salutato da un Preludio al terzo atto del Lohengrin elettrizzante.
Recensione pubblicata su OperaClick
Lorenzo Viotti e Gautier Capuçon aprono la stagione pordenonese con un doppio concerto
Si sta sempre bene tra le braccia della mamma, anche da grandi. Deve averlo pensato Gautier Capuçon, già membro della Gustav Mahler Jugendorchester e oggi solista di fama mondiale, quando ha scelto di nascondersi furtivamente tra i violoncelli di fila per la Patetica di Čajkovskij. Non che passasse di lì per caso Capuçon, che del Summer tour 2018 è la stella solista e poco prima aveva suonato un elettrizzante Concerto per violoncello n. 1 in Mi bemolle maggiore di Šostakovič con virtuosismo da trapezista e l’intuito dell’artista superiore, quello capace di reinventare la nenia del secondo movimento imprimendole un ipnotico abbandono che la trasformava in una sorta di lamento remoto e alienato.
Certo il cammeo in orchestra per l’estrema sinfonia del genio russo è un evento che può avere una qualche rilevanza alla voce “gossip”, ma che poco o nulla aggiunge al suono già di per sé caldo e carezzevole degli archi della Mahler. E nella fattispecie a quello dei celli, che sanno coccolare con tutto l’affetto del mondo il tema di valzer dell’Allegro con grazia e ammantarlo del calore di un abbraccio. Orchestra in stato di grazia dunque, il resto lo fa Lorenzo Viotti che pennella e scherza il tempo con qualche allegra zingarata, ma che sa anche scatenare l’apocalisse nella turbinosa sezione centrale del primo movimento, con gli ottoni in festa. O che infiamma con un implacabile parossismo danzante la chiusa del terzo movimento (e qui i contrabbassi che ballano al ritmo della musica sono puro spettacolo). Una Sesta sì eccentrica, più furoreggiante che “patetica” in verità – e che avrà dunque scontentato qualcuno – ma personalissima e, manco a dirlo, suonata divinamente.
Peccato che il pubblico provi a rovinarla in ogni modo possibile: prima ci pensa un cellulare, poi degli applausi intempestivi, ma tutto sommato comprensibili, a termine del terzo movimento e infine la smania di schiamazzare di chi non capisce che quel silenzio in cui si spegne la sinfonia, e idealmente la vita di Čajkovskij, è esso stesso musica.
Delude un po’ invece il Wagner tristaniano (Preludio e Liebestod) che apre la serata senza replicare la magia prodotta poche settimane prima nella Basilica di Aquileia. Ci sono sì la perizia e la pulizia esecutiva dovute e attese, ma anche un’eccessiva freddezza di fondo.
Per il secondo anno consecutivo l’inaugurazione di stagione del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone si sdoppia, così al primo concerto ne succede un secondo in cui l’unica cosa a cambiare è il programma. Lo aprono i Mi della Sinfonia della Forza del Destino (Allegro agitato e presto scrive Verdi, e Viotti lo prende alla lettera). Giova quel clima da ultimo giorno di scuola – il concerto chiude la tournée – a orchestra e direttore che letteralmente sciolgono gli ormeggi e gettano il cuore oltre l’ostacolo. Lo fa in particolare Viotti, che allarga e spreme la musica con estrema libertà fino a una stretta finale scatenata – e spudoratamente bandistica, ma ci sta – che ne esalta più l’impetuosità che la drammaticità. Che sia piaciuto ai perbenisti del suono? Ne dubito. Un filino effettistico? Probabilmente sì. Però che vita! E che energia!
Nel Concerto per violoncello n. 2 in si minore, op. 104 di Antonin Dvořák, Capuçon si gioca le carte che nella serata precedente si era tenuto nella manica: legato, una prodigiosa ampiezza di cavata, suono di pasta calda e una cantabilità assai plastica. Viotti è il genere di direttore che sa ascoltare e lasciare spazio al solista, sicché le idee e la fantasia del violoncellista hanno modo di trovare piena realizzazione.
Con la Sinfonia n. 5 in do diesis minore di Mahler si tocca la vetta esecutiva e interpretativa del doppio appuntamento. Innanzitutto perché i conti tornano dall’inizio alla fine e tutto scorre liscio come l’olio senza inciampi né squilibri (e in questo Mahler è tutt’altro che scontato). Non c’è linea che non sia sempre chiara e rifinita, né passaggio che dia l’impressione di uscire confuso o “tirato via”. E poi Viotti plasma la musica con una libertà di tempi, fraseggi e articolazione che le dona flessibilità e originalità. Quello che in fin dei conti sorprende e conquista di questo giovane direttore è la ricchezza del suo vocabolario musicale e l’ampiezza di risorse tecniche ed espressive che non solo gli danno modo di tenere sempre in controllo l’orchestra, ma anche di valorizzare a pieno la scrittura. Che si tratti dei passaggi più infuocati o della cristalleria cameristica del Trio, dell’intimismo dell’Adagietto o degli scossoni che chiudono il Rondo-Finale, pare non esserci passaggio che lo metta in difficoltà o che difetti di quella sincerità di trasporto che trasforma la grande prestazione in una grande interpretazione.
Una prova straordinaria insomma, in cui non c’è sezione o prima parte della GMJO che si tenga un passo indietro rispetto agli altri. Capuçon si risiede tra i violoncelli di fila anche per questo Mahler ed è qualcosa di bellissimo, se non altro dal punto di vista simbolico.
Teatro pieno e successo travolgente, durante e a fine concerto. Pordenone ama la “sua” Gustav Mahler Jugendorchester e ne attende il ritorno.
Recensione pubblicata su OperaClick
![]() |
Foto_Elisa Caldana |
Certo il cammeo in orchestra per l’estrema sinfonia del genio russo è un evento che può avere una qualche rilevanza alla voce “gossip”, ma che poco o nulla aggiunge al suono già di per sé caldo e carezzevole degli archi della Mahler. E nella fattispecie a quello dei celli, che sanno coccolare con tutto l’affetto del mondo il tema di valzer dell’Allegro con grazia e ammantarlo del calore di un abbraccio. Orchestra in stato di grazia dunque, il resto lo fa Lorenzo Viotti che pennella e scherza il tempo con qualche allegra zingarata, ma che sa anche scatenare l’apocalisse nella turbinosa sezione centrale del primo movimento, con gli ottoni in festa. O che infiamma con un implacabile parossismo danzante la chiusa del terzo movimento (e qui i contrabbassi che ballano al ritmo della musica sono puro spettacolo). Una Sesta sì eccentrica, più furoreggiante che “patetica” in verità – e che avrà dunque scontentato qualcuno – ma personalissima e, manco a dirlo, suonata divinamente.
Peccato che il pubblico provi a rovinarla in ogni modo possibile: prima ci pensa un cellulare, poi degli applausi intempestivi, ma tutto sommato comprensibili, a termine del terzo movimento e infine la smania di schiamazzare di chi non capisce che quel silenzio in cui si spegne la sinfonia, e idealmente la vita di Čajkovskij, è esso stesso musica.
Delude un po’ invece il Wagner tristaniano (Preludio e Liebestod) che apre la serata senza replicare la magia prodotta poche settimane prima nella Basilica di Aquileia. Ci sono sì la perizia e la pulizia esecutiva dovute e attese, ma anche un’eccessiva freddezza di fondo.
Per il secondo anno consecutivo l’inaugurazione di stagione del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone si sdoppia, così al primo concerto ne succede un secondo in cui l’unica cosa a cambiare è il programma. Lo aprono i Mi della Sinfonia della Forza del Destino (Allegro agitato e presto scrive Verdi, e Viotti lo prende alla lettera). Giova quel clima da ultimo giorno di scuola – il concerto chiude la tournée – a orchestra e direttore che letteralmente sciolgono gli ormeggi e gettano il cuore oltre l’ostacolo. Lo fa in particolare Viotti, che allarga e spreme la musica con estrema libertà fino a una stretta finale scatenata – e spudoratamente bandistica, ma ci sta – che ne esalta più l’impetuosità che la drammaticità. Che sia piaciuto ai perbenisti del suono? Ne dubito. Un filino effettistico? Probabilmente sì. Però che vita! E che energia!
Nel Concerto per violoncello n. 2 in si minore, op. 104 di Antonin Dvořák, Capuçon si gioca le carte che nella serata precedente si era tenuto nella manica: legato, una prodigiosa ampiezza di cavata, suono di pasta calda e una cantabilità assai plastica. Viotti è il genere di direttore che sa ascoltare e lasciare spazio al solista, sicché le idee e la fantasia del violoncellista hanno modo di trovare piena realizzazione.
Con la Sinfonia n. 5 in do diesis minore di Mahler si tocca la vetta esecutiva e interpretativa del doppio appuntamento. Innanzitutto perché i conti tornano dall’inizio alla fine e tutto scorre liscio come l’olio senza inciampi né squilibri (e in questo Mahler è tutt’altro che scontato). Non c’è linea che non sia sempre chiara e rifinita, né passaggio che dia l’impressione di uscire confuso o “tirato via”. E poi Viotti plasma la musica con una libertà di tempi, fraseggi e articolazione che le dona flessibilità e originalità. Quello che in fin dei conti sorprende e conquista di questo giovane direttore è la ricchezza del suo vocabolario musicale e l’ampiezza di risorse tecniche ed espressive che non solo gli danno modo di tenere sempre in controllo l’orchestra, ma anche di valorizzare a pieno la scrittura. Che si tratti dei passaggi più infuocati o della cristalleria cameristica del Trio, dell’intimismo dell’Adagietto o degli scossoni che chiudono il Rondo-Finale, pare non esserci passaggio che lo metta in difficoltà o che difetti di quella sincerità di trasporto che trasforma la grande prestazione in una grande interpretazione.
Una prova straordinaria insomma, in cui non c’è sezione o prima parte della GMJO che si tenga un passo indietro rispetto agli altri. Capuçon si risiede tra i violoncelli di fila anche per questo Mahler ed è qualcosa di bellissimo, se non altro dal punto di vista simbolico.
Teatro pieno e successo travolgente, durante e a fine concerto. Pordenone ama la “sua” Gustav Mahler Jugendorchester e ne attende il ritorno.
Recensione pubblicata su OperaClick
20 agosto 2018
Ricordatevi di Lorenzo Viotti
Ci scommetto, da qui a qualche anno Lorenzo Viotti diventerà uno dei più importanti direttori in circolazione. Già al seguito della Gustav Mahler Jugendorchester per la residenza estiva pordenonese della scorsa stagione, mi stupì in un concerto ad Aquileia con un’Incompiuta di Schubert di pura sostanza, che ad occhi chiusi nessuno avrebbe potuto associare a un musicista nemmeno trentenne. Allora seguiva Ingo Metzmacher da direttore assistente e le due performance agostane che diresse in giro per il Friuli furono un piacevolissimo interludio, purtroppo incidentale, alla residenza dell’orchestra.
Quest’anno invece la tournée estiva della GMJO è affar suo, fatto eccezionale considerando la fama di chi l’ha preceduto (gli ultimi nomi sono quelli di Jurowski, Jordan, Blomstedt, Eschenbach e Metzmacher appunto). Certo quella che sulla carta potrebbe sembrare una sorpresa, se non un azzardo, alla prova dei fatti trova piena giustificazione. Perché Viotti ha sì 28 anni, ma la maturità di chi parrebbe avere già una lunga vita musicale alle spalle, forse più d’una. Gesto limpido ed essenziale, una cura maniacale per il dettaglio ma soprattutto la capacità di tradurre in musica, evitando fronzoli, pesantezza ed eccessi di rigidità, le sue idee.
Ed è stata di nuovo la Basilica di Aquileia a darmene la conferma, ancora una volta chiamata a ospitare una delle due date estive che fanno da appendice al soggiorno friulano della GMJO. Scelta doppiamente felice perché, oltre ad offrire musica straordinaria suonata in modo straordinario in un sito cruciale dell’identità culturale della regione, permette di diffondere ad ampio spettro sul territorio quel progetto meritorio – c’è da sperare che prosegua negli anni a venire – che è il sodalizio tra il Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone e la creatura di Abbado.
La quale è sì un’orchestra di virtuosi, lo si dà per scontato quando si approfondiscono i numeri e le modalità di selezione per accedervi, ma soprattutto di artisti; una compagnia di musicisti che danno l’impressione di trarre piacere dal suonare insieme, dal suonare bene e con tutta l’espressività che hanno dentro. Su un materiale umano di tale valore trova terreno dei più fertili il lavoro di bulino del direttore, che si ascolta e si percepisce tutto.
Lo svela un dettaglio apparentemente irrilevante, ma tanto significativo: la frase dell’oboe, ripresa poi dal clarinetto, che chiude il Preludio del Tristano anticipando il Liebestod, esprime un colore che non è solo intrinsecamente prezioso, ma che pare distendersi e rasserenarsi a preparare il cambio di atmosfera. È un’inezia, ma dà discorsività e coesione a due brani che disterebbero qualche centinaio di pagine nella partitura. Il merito è certo di chi gli strumenti li manovra, ci mancherebbe altro, ma anche di chi tanta dovizia di sfumature e dettagli la esige. E che Viotti sia già un mago del colore e della dinamica lo si realizza definitivamente poco dopo, con l’attacco dell’Idillio per orchestra di Anton Webern Im Sommerwind: un pedale dei contrabbassi in più che pianissimo, su cui si appoggiano sussurrando gli altri archi, monta dal nulla, leggerissimo ma non privo di certa oscura tensione, quasi fosse un velo d’acqua che dai mosaici bizantini della Basilica s’innalza a riempire il silenzio.
Può darsi che sia facile stupire con un raro Webern giovanile, ancora di qua dal cambiare la storia della musica e il mondo, ma gli estratti dal Tristan und Isolde non mentono e, soprattutto, espongono ai massimi confronti. Ebbene, già a metà del Preludio capita di pensare che non sarebbe male ascoltare l’intera opera diretta a quel modo, pervasa sì del suo notturno mistero ma senza misticismi di maniera o quel gusto un po’ stucchevole per la sottolineatura estenuata del cromatismo che riduce la musica wagneriana a un coacervo di languori. Non c’è calligrafia, né alcun effettismo, ma molta umanità, che sa infiammarsi di passione e tenerezza o ritrarsi in ombre dolenti. Quel che non manca mai però è la spontaneità, è la flessibilità mutevole di ogni espediente espressivo.
Ecco il punto fondamentale: Viotti sa sì colorare, rifinire le sonorità e dare fluidità alle misure, eppure non si avverte mai la sensazione che tanta cura scada nel compiacimento, nell’esibizionismo o nella concessione all’edonismo. Il focus è sempre sulla musica e ogni scelta dinamica, timbrica o di articolazione va in quella direzione. La forma, intesa come attenzione per l’estetica del suono, è essa stessa contenuto e veicola un pensiero che è sempre decifrabile.
Chiude una Verklärte Nacht nella versione per orchestra d’archi che è una miniera di dettagli, lirismo, colori, accenti, inflessioni e intenzioni. Certo aiuta avere in squadra Raphaëlle Moreau, spalla di grande raffinatezza, e l’ottima prima viola di Cátia Alexandra Santos. Due nomi fra i tanti, ma meriterebbero di essere menzionati tutti gli altri professori, a uno a uno.
Il 3 e 4 settembre sarà ancora la GMJO ad inaugurare la stagione del Verdi di Pordenone per il quarto anno consecutivo con un doppio concerto che chiuderà il tour europeo; sul podio lo stesso Viotti e al suo fianco il violoncellista Gautier Capuçon. In cartellone musiche di Wagner, Šostakovič, Čajkovskij, Verdi, Dvořák e Mahler. Se queste sono le premesse, l’appuntamento si annuncia imperdibile.
Quest’anno invece la tournée estiva della GMJO è affar suo, fatto eccezionale considerando la fama di chi l’ha preceduto (gli ultimi nomi sono quelli di Jurowski, Jordan, Blomstedt, Eschenbach e Metzmacher appunto). Certo quella che sulla carta potrebbe sembrare una sorpresa, se non un azzardo, alla prova dei fatti trova piena giustificazione. Perché Viotti ha sì 28 anni, ma la maturità di chi parrebbe avere già una lunga vita musicale alle spalle, forse più d’una. Gesto limpido ed essenziale, una cura maniacale per il dettaglio ma soprattutto la capacità di tradurre in musica, evitando fronzoli, pesantezza ed eccessi di rigidità, le sue idee.
Ed è stata di nuovo la Basilica di Aquileia a darmene la conferma, ancora una volta chiamata a ospitare una delle due date estive che fanno da appendice al soggiorno friulano della GMJO. Scelta doppiamente felice perché, oltre ad offrire musica straordinaria suonata in modo straordinario in un sito cruciale dell’identità culturale della regione, permette di diffondere ad ampio spettro sul territorio quel progetto meritorio – c’è da sperare che prosegua negli anni a venire – che è il sodalizio tra il Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone e la creatura di Abbado.
La quale è sì un’orchestra di virtuosi, lo si dà per scontato quando si approfondiscono i numeri e le modalità di selezione per accedervi, ma soprattutto di artisti; una compagnia di musicisti che danno l’impressione di trarre piacere dal suonare insieme, dal suonare bene e con tutta l’espressività che hanno dentro. Su un materiale umano di tale valore trova terreno dei più fertili il lavoro di bulino del direttore, che si ascolta e si percepisce tutto.
Lo svela un dettaglio apparentemente irrilevante, ma tanto significativo: la frase dell’oboe, ripresa poi dal clarinetto, che chiude il Preludio del Tristano anticipando il Liebestod, esprime un colore che non è solo intrinsecamente prezioso, ma che pare distendersi e rasserenarsi a preparare il cambio di atmosfera. È un’inezia, ma dà discorsività e coesione a due brani che disterebbero qualche centinaio di pagine nella partitura. Il merito è certo di chi gli strumenti li manovra, ci mancherebbe altro, ma anche di chi tanta dovizia di sfumature e dettagli la esige. E che Viotti sia già un mago del colore e della dinamica lo si realizza definitivamente poco dopo, con l’attacco dell’Idillio per orchestra di Anton Webern Im Sommerwind: un pedale dei contrabbassi in più che pianissimo, su cui si appoggiano sussurrando gli altri archi, monta dal nulla, leggerissimo ma non privo di certa oscura tensione, quasi fosse un velo d’acqua che dai mosaici bizantini della Basilica s’innalza a riempire il silenzio.
Può darsi che sia facile stupire con un raro Webern giovanile, ancora di qua dal cambiare la storia della musica e il mondo, ma gli estratti dal Tristan und Isolde non mentono e, soprattutto, espongono ai massimi confronti. Ebbene, già a metà del Preludio capita di pensare che non sarebbe male ascoltare l’intera opera diretta a quel modo, pervasa sì del suo notturno mistero ma senza misticismi di maniera o quel gusto un po’ stucchevole per la sottolineatura estenuata del cromatismo che riduce la musica wagneriana a un coacervo di languori. Non c’è calligrafia, né alcun effettismo, ma molta umanità, che sa infiammarsi di passione e tenerezza o ritrarsi in ombre dolenti. Quel che non manca mai però è la spontaneità, è la flessibilità mutevole di ogni espediente espressivo.
Ecco il punto fondamentale: Viotti sa sì colorare, rifinire le sonorità e dare fluidità alle misure, eppure non si avverte mai la sensazione che tanta cura scada nel compiacimento, nell’esibizionismo o nella concessione all’edonismo. Il focus è sempre sulla musica e ogni scelta dinamica, timbrica o di articolazione va in quella direzione. La forma, intesa come attenzione per l’estetica del suono, è essa stessa contenuto e veicola un pensiero che è sempre decifrabile.
Chiude una Verklärte Nacht nella versione per orchestra d’archi che è una miniera di dettagli, lirismo, colori, accenti, inflessioni e intenzioni. Certo aiuta avere in squadra Raphaëlle Moreau, spalla di grande raffinatezza, e l’ottima prima viola di Cátia Alexandra Santos. Due nomi fra i tanti, ma meriterebbero di essere menzionati tutti gli altri professori, a uno a uno.
Il 3 e 4 settembre sarà ancora la GMJO ad inaugurare la stagione del Verdi di Pordenone per il quarto anno consecutivo con un doppio concerto che chiuderà il tour europeo; sul podio lo stesso Viotti e al suo fianco il violoncellista Gautier Capuçon. In cartellone musiche di Wagner, Šostakovič, Čajkovskij, Verdi, Dvořák e Mahler. Se queste sono le premesse, l’appuntamento si annuncia imperdibile.
5 luglio 2018
Richard III di Battistelli alla Fenice
È una lezione di teatro quella che il professor Robert Carsen impartisce nel Richard III in scena al Teatro La Fenice. L’allestimento in realtà non è freschissimo ma nasce tredic’anni fa, assieme all’opera che Giorgio Battistelli trae da Shakespeare – su drammaturgia di Ian Burton – per la Vlaamse Opera di Anversa e arriva in Italia per la prima volta.
Come accade in nove casi su dieci, il segreto per il successo di una produzione operistica è la sinergia tra palco e musica, e da questo punto di vista Carsen dimostra ancora una volta di avere pochi rivali. Lo spettacolo, complice l’ispiratissimo disegno luci che il regista firma assieme a Peter Van Praet, esalta la tinta cupa e sinistra della scrittura di Battistelli, ne asseconda l’inquietudine estenuante e sfrutta gli snodi musicali e ritmici traducendoli in azione.
La scena fissa, firmata da Radu Boruzescu, riproduce la cavea di un anfiteatro sghembo che potrebbe ricordare vagamente i teatri d’epoca shakespeariana o un vecchio circo in disarmo. Ai suoi piedi il suolo è ricoperto da una sabbia rossastra che diventa all’occorrenza sangue zampillante o un letto in cui nascondere i cadaveri. Su questo palco va in scena la macabra recita di Richard, un’ascesa al trono che pare l’allungarsi di un’ombra a coprire tutto e tutti. È l’ombra della morte, quasi un morbo che si propaga dal protagonista a chi lo circonda e che, se non uccide, storpia di una deformità che è fisica quanto morale. Chi sopravvive a Richard diventa come lui o gli si vende, arruolandosi nel suo esercito di sgherri, dei beccamorti armati di una pala con cui lottano, ammazzano e seppelliscono.
Gidon Saks è il Richard di cui ha bisogno uno spettacolo del genere: tanta voce dunque, ruvida ma duttile il giusto da soddisfare una scrittura che richiede ogni sorta di sfumatura espressiva, ma anche carisma dilagante e consumato mestiere d’attore. La parte è di quelle pesanti, non solo per l’impegno e la durata (Richard calca il palco quasi incessantemente per le due ore abbondanti dell’opera) ma anche, appunto, perché il ventaglio di sollecitazioni cui è spinta la voce spazia dal sussurro all’urlo, dal parlato ai suoni aperti più graffianti, insomma mette a dura prova le corde vocali del baritono. Contraltare al male assoluto, luciferino del protagonista – a onor del vero non privo di certo fascino – quello banale del Buckingham di Urban Malmberg, un insulso impiegato senza spina dorsale.
Il secondo protagonista dell’opera è il coro, nel caso specifico quello della Fenice preparato da Claudio Marino Moretti, che, al solito, è una macchina da guerra: suono pieno e compatto ma anche la disciplina necessaria per assecondare una regia molto esigente.
Tra le donne se la cavano meglio Sara Fulgoni, che è un’intensa Duchessa di York, e la sofferente Queen Elisabeth di Christina Daletska rispetto ad Annalena Persson, la quale è una Lady Anne dal registro acuto arrembante.
Christopher Lemmings si sdoppia tra Clarence e Tyrrel. Vocalmente pallido il Prince Edward di Jonathan De Ceuster mentre Laila D'Ascenzio è il fratellino Richard. Convincono l’Edward IV di Philip Sheffield e l’Hastings di Simon Schnorr.
Completano la compagnia, dimostrando tutti una perfetta corrispondenza tra esigenze vocali e attoriali, Paolo Antognetti (Richmond), Zachary Altman (Lovell), Till von Orlowsky (Catesby/Rivers), Szymon Chojnacki (Ratcliffe/Brackenburry), Matteo Ferrara (1st Murderer/Archbishop) e Francesco Milanese (II Murderer/Mayor).
Tito Ceccherini condivide con un’Orchestra della Fenice in serata di grazia buona parte del successo della recita. Oltre alla ricchezza del suono, che esalta la possanza della scrittura orchestrale senza appesantirla, si apprezza una preziosa attenzione per gli equilibri interni e per la complessità ritmica della partitura, nonché un impeccabile sostegno al palcoscenico, merito da spartire con la regia sonora di Davide Tiso.
All’altezza anche la prova del Kolbe Children’s Choir diretto da Alessandro Toffolo.
A fine spettacolo è trionfo per tutta la compagnia, con punte di entusiasmo per Saks, Ceccherini e Carsen.
Recensione pubblicata su OperaClick
Come accade in nove casi su dieci, il segreto per il successo di una produzione operistica è la sinergia tra palco e musica, e da questo punto di vista Carsen dimostra ancora una volta di avere pochi rivali. Lo spettacolo, complice l’ispiratissimo disegno luci che il regista firma assieme a Peter Van Praet, esalta la tinta cupa e sinistra della scrittura di Battistelli, ne asseconda l’inquietudine estenuante e sfrutta gli snodi musicali e ritmici traducendoli in azione.
La scena fissa, firmata da Radu Boruzescu, riproduce la cavea di un anfiteatro sghembo che potrebbe ricordare vagamente i teatri d’epoca shakespeariana o un vecchio circo in disarmo. Ai suoi piedi il suolo è ricoperto da una sabbia rossastra che diventa all’occorrenza sangue zampillante o un letto in cui nascondere i cadaveri. Su questo palco va in scena la macabra recita di Richard, un’ascesa al trono che pare l’allungarsi di un’ombra a coprire tutto e tutti. È l’ombra della morte, quasi un morbo che si propaga dal protagonista a chi lo circonda e che, se non uccide, storpia di una deformità che è fisica quanto morale. Chi sopravvive a Richard diventa come lui o gli si vende, arruolandosi nel suo esercito di sgherri, dei beccamorti armati di una pala con cui lottano, ammazzano e seppelliscono.
Gidon Saks è il Richard di cui ha bisogno uno spettacolo del genere: tanta voce dunque, ruvida ma duttile il giusto da soddisfare una scrittura che richiede ogni sorta di sfumatura espressiva, ma anche carisma dilagante e consumato mestiere d’attore. La parte è di quelle pesanti, non solo per l’impegno e la durata (Richard calca il palco quasi incessantemente per le due ore abbondanti dell’opera) ma anche, appunto, perché il ventaglio di sollecitazioni cui è spinta la voce spazia dal sussurro all’urlo, dal parlato ai suoni aperti più graffianti, insomma mette a dura prova le corde vocali del baritono. Contraltare al male assoluto, luciferino del protagonista – a onor del vero non privo di certo fascino – quello banale del Buckingham di Urban Malmberg, un insulso impiegato senza spina dorsale.
Il secondo protagonista dell’opera è il coro, nel caso specifico quello della Fenice preparato da Claudio Marino Moretti, che, al solito, è una macchina da guerra: suono pieno e compatto ma anche la disciplina necessaria per assecondare una regia molto esigente.
Tra le donne se la cavano meglio Sara Fulgoni, che è un’intensa Duchessa di York, e la sofferente Queen Elisabeth di Christina Daletska rispetto ad Annalena Persson, la quale è una Lady Anne dal registro acuto arrembante.
Christopher Lemmings si sdoppia tra Clarence e Tyrrel. Vocalmente pallido il Prince Edward di Jonathan De Ceuster mentre Laila D'Ascenzio è il fratellino Richard. Convincono l’Edward IV di Philip Sheffield e l’Hastings di Simon Schnorr.
Completano la compagnia, dimostrando tutti una perfetta corrispondenza tra esigenze vocali e attoriali, Paolo Antognetti (Richmond), Zachary Altman (Lovell), Till von Orlowsky (Catesby/Rivers), Szymon Chojnacki (Ratcliffe/Brackenburry), Matteo Ferrara (1st Murderer/Archbishop) e Francesco Milanese (II Murderer/Mayor).
Tito Ceccherini condivide con un’Orchestra della Fenice in serata di grazia buona parte del successo della recita. Oltre alla ricchezza del suono, che esalta la possanza della scrittura orchestrale senza appesantirla, si apprezza una preziosa attenzione per gli equilibri interni e per la complessità ritmica della partitura, nonché un impeccabile sostegno al palcoscenico, merito da spartire con la regia sonora di Davide Tiso.
All’altezza anche la prova del Kolbe Children’s Choir diretto da Alessandro Toffolo.
A fine spettacolo è trionfo per tutta la compagnia, con punte di entusiasmo per Saks, Ceccherini e Carsen.
Recensione pubblicata su OperaClick
1 luglio 2018
Maurizio Baglini alla prova delle Sonate 1 e 2 di Schumann
È uno Schumann tormentato e irrequieto quello di Maurizio Baglini ma senza le pose o i grandi sentimenti dello stereotipo romantico. Baglini non sente il bisogno di esteriorizzare una Sehnsucht che è intima, celata tra le pieghe della partitura e che non necessita di forzature o lenti d'ingrandimento per emergere, né avverte la necessità di mitigare o addolcire le asperità della scrittura schumanniana. Non c'è struggimento ma disagio, un'instabilità più affettiva (in senso propriamente patologico) che emozionale, che erompe con forza dalla musica. In fondo i problemi di salute psichica di Schumann sono cosa nota e non c'è ragione di pensare che la sua produzione non ne fosse influenzata. Dalla polifonia frammentaria e nervosa delle Sonate per pianoforte n. 1 e 2 scaturisce un ritratto del compositore che ne restituisce appieno la fragilità psicologica – molto interessanti a proposito le considerazioni stilate dallo stesso Baglini nelle note introduttive all'incisione circa le molteplici personalità compositive di Schumann.
Baglini scansa quel gusto, più o meno di maniera, che porta a mitigare i contrasti spostando l'asse espressivo verso la malinconia o la tenerezza, ma punta dritto verso un sentire moderno. Si avverte un'irrequietezza, un inesausto disagio nevrotico celato sotto alla brillantezza del suono inconfondibile del Fazioli. Già l'attacco della Sonata n.2 in sol minore, Op.22 esprime una tensione angosciosa che si manterrà a livelli altissimi per tutta la durata dell'incisione; anche i momenti più distesi (il Lied della Sonata n. 1 in fa diesis minore, op. 11 o l'Andantino della Seconda) non scansano mai completamente questa irrequietezza.
Costa infatti una certa fatica l'ascolto di questa incisione perché l'interprete non allenta mai la morsa né pare intravedere nei lavori in questione alcunché di consolatorio o rasserenante, ammesso e non concesso che qualcosa del genere in Schumann vi sia davvero.
Inutile ripetere considerazioni note in merito alla tecnica d'alta scuola di Baglini che qui, ancor più che in altre occasioni, è mezzo espressivo e mai fine. Se è lecito pretendere da una registrazione in studio la perfezione esecutiva - che ovviamente c'è - non altrettanto scontate sono la ricchezza di colori e sfumature e soprattutto l'originalità nell'articolazione.
Eccellente la qualità della registrazione, da standard DECCA.
In programma per i prossimi anni un'integrale pianistica schumanniana che, a quanto si ascolta in questa prima tappa, si annuncia molto interessante.
Baglini scansa quel gusto, più o meno di maniera, che porta a mitigare i contrasti spostando l'asse espressivo verso la malinconia o la tenerezza, ma punta dritto verso un sentire moderno. Si avverte un'irrequietezza, un inesausto disagio nevrotico celato sotto alla brillantezza del suono inconfondibile del Fazioli. Già l'attacco della Sonata n.2 in sol minore, Op.22 esprime una tensione angosciosa che si manterrà a livelli altissimi per tutta la durata dell'incisione; anche i momenti più distesi (il Lied della Sonata n. 1 in fa diesis minore, op. 11 o l'Andantino della Seconda) non scansano mai completamente questa irrequietezza.
Costa infatti una certa fatica l'ascolto di questa incisione perché l'interprete non allenta mai la morsa né pare intravedere nei lavori in questione alcunché di consolatorio o rasserenante, ammesso e non concesso che qualcosa del genere in Schumann vi sia davvero.
Inutile ripetere considerazioni note in merito alla tecnica d'alta scuola di Baglini che qui, ancor più che in altre occasioni, è mezzo espressivo e mai fine. Se è lecito pretendere da una registrazione in studio la perfezione esecutiva - che ovviamente c'è - non altrettanto scontate sono la ricchezza di colori e sfumature e soprattutto l'originalità nell'articolazione.
Eccellente la qualità della registrazione, da standard DECCA.
In programma per i prossimi anni un'integrale pianistica schumanniana che, a quanto si ascolta in questa prima tappa, si annuncia molto interessante.