15 ottobre 2018

Falstaff all'Olimpico di Vicenza

Al Vicenza Opera Festival va in scena il Falstaff di Iván Fischer e, come d’incanto, anche quello di Giuseppe Verdi. D’accordo, è una provocazione, ma fino a un certo punto. Qui non si parla di ossequio al Verbo, inteso come libretto o partitura – anche se nel caso specifico la partitura è rispettata eccome! – ma di spirito dell’opera, di atmosfera, qualunque cosa possa significare. Un Falstaff che è innanzitutto commedia e non farsa proprio a partire dal gesto musicale, e poi lo è anche sul palco o quel che ne rimane. Per uno strano scherzo del melodramma, uno spettacolo d’impronta tradizionalissima e per di più in forma semiscenica, quindi senza quinte né fondali e con mezza orchestra dispersa tra i cantanti, diventa teatro al cubo, quasi il clima intimo e gli spazi contenuti della cavea semicircolare dell’Olimpico, che pare abbracciare la scena per entrarci, riuscissero a moltiplicare la reciproca immedesimazione di pubblico e artisti.

Foto: Kata Schiller

E poi c’è la mano di Fischer, il quale fa piazza pulita di vezzi e vizi della tradizione. Via pause e corone di routine, via rallentandi e compiacimenti ritmici assortiti, via tutte le pigre strizzate d’occhio al comodo o all’abitudine d’ascolto. Resta Verdi in sostanza, con tutto il suo genio musicale e teatrale ben esposto in vetrina. Un Verdi in salsa mozartiana per dimensioni dell’organico e leggerezza, sorridente ma ambiguo e sfaccettato, concertato con attenzione all’equilibrio più minuscolo e al dettaglio pulviscolare senza che la calligrafia prenda mai il sopravvento sul testo. L’eccentrica distribuzione dell’orchestra – archi sul palco e in buca, alle spalle del maestro, fiati e percussioni – restituisce un curioso effetto stereofonico che esalta quella prodigiosa scrittura in cui ogni nota sottotitola un gesto (il pizzicato sorprendentemente esposto del primo violoncello a dipingere l’“aria che vola”, solo per fare un esempio tra mille). E tanti, tantissimi colori, perché ogni frase è accompagnata da un tono diverso che sottintende una diversa intenzione.

In mezzo a tutto ciò Fischer non si perde una semicroma e “racconta” con virtuosismo quasi insolente la musica. I concertati scorrono via con una facilità persino spiazzante, tutto è limpido e chiarissimo senza che tanta levigatezza tradisca sentori di accademia o anche soltanto di superficialità.

La Budapest Festival Orchestra in assetto da camera è una delizia per le orecchie: tersa, ricca, corposa. Niente sbavature né frasi buttate via, solo musica ad altissimo livello.

Foto: Kata Schiller

Fischer firma, a quattro mani con Marco Gandini, anche una regia che di per sé non inventa niente di sconvolgente, ma che c’è e funziona. È vero, molte trovate sono viste e riviste, qualcuna anche un po’ ammuffita, ma in un Falstaff che guarda all’altro ieri ci possono stare, anche perché in compenso c’è un’attenzione alla recitazione e al ritmo della narrazione tutt’altro che banale. Pur su un palco disadorno, con le scene (di Andrea Tocchio) ridotte al minimo e dei costumi belli ma vagamente carnascialeschi (Anna Biagiotti), la sospensione dell'incredulità non esita un istante e si finisce tutti per credere d’essere catapultati in questa strana Windsor palladiana.
Non manca poi qualche trovata d’effetto: il direttore d’orchestra che gioca a fare l’oste della Giarrettiera e di tanto in tanto “cortocircuita” con la recita pare divertire molto il pubblico.

Foto: Kata Schiller

La vulgata vuole che Falstaff sia opera da direttore d’orchestra (come se poi le altre non lo fossero!) ma non di meno esige un cast di musicisti e attori di prima qualità che qui, con diversi gradi di eccellenza, non mancano.

Ambrogio Maestri è il Falstaff dei nostri giorni. La parte gli calza a pennello e l’ormai lunga frequentazione ha limato il dettaglio del dettaglio. Maestri dà senso e colore a ogni parola, giocando anche sulla dinamica e talvolta magari calcando un po’ la mano, ma il personaggio c’è tutto: un Sir John che centra quell’ineffabile mezza via shakespeariana in cui i registri si mescolano e contaminano a vicenda. Un po’ intristito e un po’ patetico, un po’ bonario e velatamente cinico, Maestri cammina sul filo di una radente ambiguità non senza un’irresistibile simpatia di fondo. La voce si impone ancora per ampiezza soprattutto nei centri e negli acuti a pieni polmoni, mentre soffre un po’ nei falsetti e nei pianissimi ad alta quota, ma sono inezie che nulla tolgono a una grande caratterizzazione.

Anche Tassis Christoyannis è un Ford di lungo corso, e si sente. La voce c’è ed è a posto, ma anche nel suo caso il canto non è mai il fine ma un mezzo a servizio del teatro, come dovrebbe essere sempre.
Eva Mei soffre un po’ la scrittura di Alice in basso mentre svetta ancora con insolenza quando la tessitura sale, ma è soprattutto il genere di artista che non si canta mai addosso, né spreca una parola o un gesto.

Xabier Anduaga, giovane tenore classe 1995, è un signor Fenton. Voce di bel timbro fresco e, a dispetto del gran volume, una capacità di sfumare e legare che promette benissimo. Da tenere d’occhio per domani e dopodomani: ne sentiremo parlare. Sua degna controparte la Nannetta di Sylvia Schwartz, vocalità leggera ma non priva di corpo ed emissione d’alta scuola che dà pieno sfoggio di sé nei filati acuti.
Ottima anche la Quickly di Yvonne Naef: bel velluto e una cavata da violoncello al servizio di un gusto che bandisce ogni effettaccio (finalmente!).

Laura Polverelli è una Meg Page di lusso, così come convince senza riserve lo squillante Dottor Cajus di Francesco Pittari. Completano degnamente il cast Stuart Patterson (Bardolfo), che sa essere caratterista senza scadere nella macchietta, e Giovanni Battista Parodi, Pistola dalle scarpe grosse e dal canto fino.

Foto: Kata Schiller

Due parole le merita il coro che non c’è, almeno nominalmente, ma c’è eccome: nel terzo atto una manciata di violiniste abbandona il leggio per intonare a passo di danza i versi delle ninfe. Se lo fanno come lo fanno, cioè cantando splendidamente, il merito è senz’altro di György Philipp che le ha preparate, ma anche della loro statura artistica. Il che vale più o meno per tutti i professori della BFO, non ultimo quel violinista di fila che imbraccia la chitarra per accompagnare (e come!) l’ingresso di Falstaff a casa Ford.

Alla fine è trionfo fragoroso che rischia di far crollare le gradinate lignee dell’Olimpico, tra le apprensioni delle maschere che osservano impotenti un pubblico indisciplinato che pesta forsennatamente i piedi.

Recensione pubblicata su OperaClick

Foto: Kata Schiller

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