11 settembre 2018

La Staatskapelle Dresden in concerto con Alan Gilbert e Lisa Batiashvili

Ammettiamolo, qualche sentore di accademia – il pessimo gioco di parole non è voluto – dopo il primo movimento del Concerto per violino e orchestra n.2 in sol minore Op. 63 di Sergej Prokof’ev lo si è avvertito. D’altronde è comune che il divino abbia qualcosa a che fare con l’indifferenza, o se non vera e propria indifferenza la si può chiamare gelida perfezione. Poi però attacca l’Andante assai e con il dialogo tra il violino solista di una Lisa Batiashvili in stato di grazia e i primi della Staatskapelle Dresden il gelido marmo inizia a destarsi e a prendere vita. A questo punto l’unica Accademia che rimane in mente è quella che dà il nome al pregiatissimo Settembre veronese, una delle iniziative musicali più stimolanti su scala nazionale da qualche anno a questa parte, perché sul palco del Filarmonico inizia ad ascoltarsi la musica vera, a un livello tra i più alti immaginabili.



Lei ha quel suono tendenzialmente carnale ma penetrante che le conosciamo, con qualche punta graffiante e la plasticità mutevole di infinite screziature, ma anche il dominio dello strumento che basta a mangiarsi ogni insidia tecnica come fosse una bazzecola. Fraseggia imprimendo al violino una tensione mai nervosa che dà carattere alla musica senza sconfinare nella schizofrenia, che la rende viva pur nella sostanziale assenza della minima umana imperfezione. E poi sa modellare dinamica, timbro, intenzione. Insomma la Batiashvili è una artista di prima classe, ma si sapeva già.

La Staatskapelle d’altro canto altro non è che la macchina straordinaria che il mondo conosce da mezzo millennio. Anzi, è qualcosa di più: è un prodigio di colori – gli archi su tutti sono impressionanti per duttilità timbrica – che va ben oltre la qualità sopraffina dell’amalgama e la compattezza. Difficile ascoltare, anche tra le orchestre di primissima fascia, una tale leggerezza di suono, che non perde mai trasparenza e struttura in qualsiasi gradazione dinamica.

Che il pubblico si scateni (guadagnandosi una peculiare trascrizione per violino solista e orchestra de I Capuleti e i Montecchi dal famosissimo balletto di Prokof’ev) non sorprende affatto.



Al netto delle qualità di violinista e orchestra, qualche merito va riconosciuto anche al direttore, che nella fattispecie è un grande direttore. Alan Gilbert non gode forse in Europa della fama che meriterebbe, ma oltreoceano è una stella di prima grandezza, al punto da essersi meritato il timone della New York Philharmonic per un decennio. Non sorprende dunque che l’approccio alla materia sia molto “americano”, nell’accezione più nobile del termine: Gilbert arriva da quella scuola e si sente, anche nella Prima sinfonia di Mahler che segue. Estroversione, tecnica mostruosa e precisione assoluta (dirige a memoria e non si perde un attacco), così come totale è il controllo delle sonorità e del ventaglio dinamico.

Tutto ciò si rivela in un approccio alla musica tendenzialmente apollineo che fa della chiarezza espositiva e della levigatezza le sue cifre distintive. Non che la questione si risolva in un’esibizione di magistero tecnico, sarebbe ingiusto sostenerlo e pensarlo, anche se ad un primo momento il sospetto lo si avverte. In realtà quello di Gilbert è un modo di fare musica che rifugge il grande gesto e la sottolineatura estenuata per lavorare piuttosto di cesello. Sembra partire dall’idea che il compito di un direttore sia quello di tradurre in suono il testo scritto con la massima fedeltà possibile, senza il bisogno di leggerci un sottotesto o imprimervi una visione che sia necessariamente rivoluzionaria o personale. Ciò non comporta la riduzione del direttore a spartitraffico, tutt’altro. Gilbert gioca sul dettaglio, su una delicatissima flessibilità di tempi e sviluppo, sul minimo scarto: basti vedere come pennella il fraseggiare degli archi nel secondo movimento o come anticipa, con un cenno della sinistra, i re acuti dell’oboe nel suo tema che apre il terzo.

Quello che si ascolta è in definitiva un Mahler talmente equilibrato e cesellato che pare mixato alla console, che rinuncia forse a un pizzico di vertigine e di ombra a favore di una luce abbagliante.

L’orchestra si concede qualche minuscola sbavatura degli ottoni in apertura per poi attestarsi su quote siderali.

Pubblico in delirio salutato da un Preludio al terzo atto del Lohengrin elettrizzante.

Recensione pubblicata su OperaClick

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