26 settembre 2018

È di Salonen il Bruckner di domani?

A cinque anni dal debutto, Esa-Pekka Salonen e la sua Philharmonia Orchestra sono tornati al Teatro Nuovo Giovanni da Udine per inaugurare la Stagione 2018/19. Ne ho scritto qui, su OperaClick.



I grandi artisti sono quelli che aprono nuove vie dove gli altri si accontenterebbero di ripercorrere i vecchi sentieri. Esa-Pekka Salonen è quel tipo di uomo, un esploratore del suono e dell’interpretazione musicale, il genere di direttore capace di rinsaldare e rinnovare il rapporto di contiguità che c’è tra il grande repertorio e la contemporaneità.

Anton Bruckner, sulle cui spalle grava ancora il peso di una tradizione esecutiva gloriosa ma invadente, ha bisogno di interpreti di tal pasta, che abbiano il coraggio di svincolarlo dall’onda lunga della sensibilità tardoromantica: vibratoni struggenti e sonorità mastodontiche, seriosità ed esaltazione dell’architettura, drammaticità e trionfalismo. Tinte forti e testosterone.

Poi ecco che arriva Salonen a sparigliare le carte. La sua Sinfonia n. 7 in mi maggiore non è solo alleggerita e spogliata di ogni retorica, flessibile come una betulla mossa dal vento, è innanzitutto rivelatoria. Salonen esalta la continua invenzione della scrittura, ne accentua la plasticità e la vivacità con una tecnica di narrazione che pare cinematografica: non è il solito Bruckner catturato in campo lungo per mettere bene in mostra tutta la sua possanza e la sua marmorea bellezza, ma un continuo scorrere di dettagli su dettagli. L’obiettivo balza da un’espressione all’altra, zoomando sul minimo particolare e cavandolo fuori dal tessuto orchestrale. Quella di Salonen, ancor prima che una grande concertazione, è una lezione di “regia musicale”, di utilizzo dell’inquadratura. Ora i violini saltellano, ora seducono, ora i contrabbassi borbottano corrucciati, ora muggiscono, gli ottoni ora svettano in trionfo, ora scattano in sferzate minacciose. Non c’è tregua e non c’è monotonia: il grande vecchio, monolitico Bruckner si scompone in uno sciame di microframmenti che si ammucchiano, dialogano, mutano, bisticciano e si riappacificano continuamente. Ogni inciso ha una sua caratterizzazione, un suo colore e fraseggio e, soprattutto, un senso nella dinamica cangiante del tutto.

Non è meno entusiasmante la lettura della Notte Trasfigurata (Verklärte Nacht) nella versione per orchestra d’archi. I colori non si contano, la scrittura cameristica è esaltata dalla trasparenza e dalla ricchezza di risorse dei professori della Philharmonia Orchestra (su tutti la straordinaria prima viola di Yukiko Ogura) e illuminata dalle improvvise folate di brezza del podio. Quando la musica si spegne nel silenzio – Schönberg scrive pppp per gli archi con sordina e Salonen lo prende alla lettera – si resta senza fiato.

Insomma il Teatro Nuovo Giovanni da Udine ha inaugurato la sua stagione in grande stile, e non è una novità.

Resta la Philharmonia, che non è solo la straordinaria orchestra che tutti conoscono, ma pare sempre più un prolungamento del braccio di Salonen, tanto sono consolidate la complicità e la capacità di respirare insieme. Sulle qualità dei musicisti c’è poco da aggiungere, basterebbe quell’attacco dei violini nella Settima, bisbigliato ai limiti dell’udibile, per darne conto. Gli archi sono un prodigio di delicatezza e sfumature, i legni di nitore, gli ottoni di brillantezza (con i corni un passo indietro, probabilmente per via dei molti aggiunti in organico).

A fine concerto è trionfo che si prolunga finché Salonen non congeda l’orchestra.

Recensione pubblicata su OperaClick

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