L'inaugurazione dell'edizione 2025 del Settembre dell’Accademia, che anche quest’anno inanella una parata di grandi orchestre e star della musica nella sala del Filarmonico di Verona, è una prova di forza quasi sprezzante della London Symphony Orchestra. Per resistenza, completezza, versatilità e ampiezza, quello proposto è infatti il più classico dei programmi da grande tournée, pensato per mettere in mostra l’argenteria di un’orchestra gloriosa che torna in Italia con Antonio Pappano, che dal 2023 ha raccolto da Simon Rattle il testimone come direttore musicale.
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Foto Studio Brenzoni |
Un ciclo di concerti che ha attraversato diverse città e che conferma anche le qualità di interprete di Pappano, il quale non è un direttore cavilloso o analitico, non è un alchimista del colore orchestrale - non è insomma il genere di maestro che cerca trasparenza e cura del dettaglio - ma un musicista travolgente e appassionato, più interessato all’impatto emozionale e alla coesione che a una estrema perizia esecutiva.
Lo dimostra nella Sinfonia n.9 in mi bemolle maggiore Op. 70 di Šostakovič, accesa e contrastata ma altresì assai ben sbalzata tra l’impeto meccanicistico dei movimenti svelti e la delicatezza nei momenti distesi, in cui emerge il canto dei legni - fagotto su tutti - cui Pappano sa dare il giusto risalto e la giusta libertà di canto. Considerato il peso della storia interpretativa, questo pigio si palesa ancor più nel Beethoven della Quinta, vicina alla tradizione nelle sonorità, anche per via dell’ampio organico della London Symphony Orchestra, ma esuberante e assai poco inamidata nello sviluppo. In definitiva nell’approccio di Pappano al grande sinfonismo dominano su tutto la tensione dell’arco narrativo e un amore per una comunicativa immediata, resi ancor più urgenti dal gesto carnale e disintermediato, a mani nude (perché usare una bacchetta - dice Jorma Panula - se ho già dieci dita?)
Accanto all’ottima London Symphony, sontuosa per possanza del suono e per qualità individuali e d’insieme, nella prima parte di concerto è salito sul palco Seong-Jin Cho, protagonista nel Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in fa minore Op. 21 di Fryderyk Chopin. Stella Deutsche Grammophon, Seong-Jin Cho è il prototipo del pianista che piace al pubblico contemporaneo, e se ne capiscono le ragioni, a partire dall’assoluta completezza del bagaglio tecnico, cui non difetta proprio niente: controllo, proiezione, pulizia, legato, dinamica varia e dominio della tastiera. Il suo è un pianismo soppesato e calibrato in ogni tocco, cui manca solo un po’ abbandono, o per meglio dire di vertigine: insomma il coraggio di osare qualcosa che infranga la perfetta esposizione di ogni nota e frase, che pure, a onor del vero, sono di straordinaria fattura.
Se Pappano non è il più pignolo dei concertatori e si lascia scappare qualche sbavatura nella struttura del sound orchestrale, senza dubbio alcuno è un accompagnatore intelligente e amorevole. Lo dimostra negli equilibri soppesati tra l’ampio comparto di archi e i legni soli nelle sinfonie, lo sottolinea ancor più chiaramente in un Chopin condotto senza deferenza ma perfettamente rifinito e bilanciato nella valorizzazione di ogni voce, a partire da quella del solista.
Accoglienza trionfale con doppio bis: ancora Chopin per Seong-Jin Cho e Nimrod dalle Enigma Variations di Elgar in conclusione.
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