23 ottobre 2018

Semiramide torna a casa

Per capire dove voglia andare a parare la Semiramide in scena alla Fenice bisogna aspettare il secondo atto. Il primo Cecilia Ligorio lo butta un po' via, congelandolo in un affresco aureo che appaga l'occhio ma che dell'opera e dei personaggi racconta ben poco. Poi, come il sipario si alza sul duetto tra Semiramide e Assur, ecco la quadratura del cerchio. Lei, fin lì algida ai limiti dell’indifferenza, si mostra per quella che è: una donna che probabilmente non rifarebbe quello che ha fatto, che vive con un peso sulla coscienza che le toglie qualcosa ogni giorno ma che nonostante tutto continua a cedere a quell’attrazione malata per Assur che le ha tolto la luce dagli occhi. Da lì in avanti tutto scorre meglio: il duetto con Arsace e la sua aria sono essenziali ma sentiti, quelle del tenore e del basso due buoni momenti di teatro (anche perché Esposito è istrione fin nel midollo), il finale a palco vuoto, giocato solo su movimenti e luci soffuse, ha una sua antieffettistica efficacia. Certo la sensazione, alla fine della fiera, è che molto della colossale opera rimanga tra le pagine della partitura e che, a dispetto dell’oscurità che regna sul palco, le ombre inquietanti del Voltaire in salsa rossiniana rimangano in gran parte inespresse.



Ci sarebbe ulteriore margine di manovra insomma, e non è detto che nelle repliche che seguiranno le cose non vadano sciogliendosi e migliorando.
C'è meno opulenza nel secondo atto – la Babilonia tutta ori e dovizie che Nicolas Bovey racconta nel primo lascia spazio alla tenebra – ma in definitiva più teatro. Dicono poco invece le pantomime a sipario chiuso e i movimenti di danza, che non sono mal realizzati ma non aggiungono niente al racconto.
I costumi di Marco Piemontese non danno riferimenti temporali specifici, tendendo piuttosto a delineare delle maschere stereotipiche; certo quelli affidati al coro non brillano sempre per bellezza.

Jessica Pratt, come detto, è una Semiramide che campa sulla mestizia e sul rimpianto, il che funziona soprattutto nel secondo atto, ma necessariamente sacrifica qualcosa della complessità del personaggio (la sfera sensuale ad esempio non viene nemmeno sfiorata). La voce sta meglio in alto che in basso e pertanto non si sposa benissimo con la scrittura prevalentemente centrale della parte. Certo la qualità “strumentale” del canto, al netto di qualche sbavatura, è indiscutibile; ciò che la Pratt può (e dovrebbe) ulteriormente rifinire sono la varietà d’accento e di fraseggio, il lavoro sui colori e sulla parola e certa freddezza nella recitazione, tutti dettagli che amplierebbero lo spettro emotivo e psicologico del personaggio.

Teresa Iervolino, Arsace, ha bel timbro vellutato, più morbido che brillante, gran gusto musicale e ottime agilità. Soffre ancora un po' gli sfoghi più drammatici in cui si avverte la ricerca di un peso vocale che ancora non c'è, mentre si esalta nei passaggi più intimi, quelli in cui il figlio prevale sul guerriero, quindi in sostanza anche lei nel secondo atto.



Che Alex Esposito sia un signor cantante non è certo una scoperta, ma la sua grande scena che anticipa il finale lo ricorda ai più sbadati. Attacca un recitativo sconquassante per varietà di intenzioni e accenti, poi nel canto spianato c'è tutto quello che serve: dinamiche, legato e infine anche le agilità. Quello che nel complesso manca alla sua prova è il senso della misura, sia nella caratterizzazione del personaggio – d'accordo, questo Assur è un cattivone, per di più zoppo, ma a tratti scade nella parodia – sia nel canto vero e proprio. Esposito sceglie infatti una strada inedita per risolvere i recitativi, contaminandoli con il parlato, sporcandoli di graffi e accenti e, con la stessa veemenza, marca la recitazione. L’operazione è interessante e per certi versi spiazzante, anche perché quello che ne esce è un Assur di rottura, quasi mefistofelico, senz’altro “disturbante”, tutte cose che un intelligente lavoro di sottrazione finirebbe per esaltare anziché affievolire.

Enea Scala esce vincitore dalla sfida con una delle parti tenorili più atroci del repertorio: il suo Idreno ha volume, gusto, un bel medium, musicalmente è impeccabile e sale bene alle massacranti puntature. Che qualcuno dei tanti sopracuti esca schiacciato è il minimo sindacale.

Simon Lim è un Oroe roccioso e autorevole, Marta Mare un’Azema elegante e vocalmente a posto.
Imperioso Francesco Milanese nelle frasi dell’ombra di Nino (altro dettaglio che la regia risolve in modo discutibile, sia nelle intenzioni che nella pratica). Enrico Iviglia è un Mitrane squillante.

A reggere le fila dell'intero discorso c’è Riccardo Frizza, che si conferma direttore intelligente e di buonsenso. Sa che in questo repertorio ci sono momenti in cui l’orchestra può permettersi un passo in avanti, altri in cui deve farsi narratrice e dipingere, e altri ancora in cui è necessario scendere a patti con il canto per far quadrare i conti. Ebbene Frizza, per le quattro ore e mezza abbondanti di spettacolo – partitura in edizione critica integrale – non si perde il palco per un istante (neanche quando la Pratt tira un po' indietro nella coloratura della cabaletta Dolce pensiero) né allenta mai la tensione narrativa. L’Orchestra della Fenice è compatta e sbava pochissimo, anzi, va crescendo per qualità e morbidezza di pasta in corso d’opera.

Monumentale il coro preparato da Claudio Marino Moretti.

Alla fine è trionfo per tutti.

Recensione pubblicata su OperaClick.


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