14 dicembre 2023

Robert Trevino dirige la Terza Sinfonia di Mahler

   Pare consolidarsi sempre più il rapporto tra il Teatro La Fenice e Robert Trevino, che dopo un paio di ospitate negli anni scorsi, evidentemente andate a segno, è stato invitato per l’inaugurazione della stagione sinfonica. Occasione doppiamente gustosa dato che il menù proponeva quel mastodonte inafferrabile e piuttosto raro che è la Sinfonia n. 3 in re minore di Gustav Mahler, un’opera ideale, nella sua maestosità, per dare lustro ai complessi di casa.



Robert Trevino Terza Sinfonia di Mahler
foto Teatro La Fenice

   Di fronte alla creatività mahleriana, soprattutto quando è frastagliata e pervasa da un afflato universalistico come nella Terza, l'interprete si trova di fronte a due estremi, che possono essere conciliati con diversi gradi di coerenza. Da un lato può cercare di addolcire i tratti, mirando a una lettura organica che, a fronte di un minor rischio di frammentarietà, richiede un'ampiezza di respiro e spalle forti per scongiurare cali di tensione e certa monotonia. Dall'altro lato c'è l'opzione di sbalzare i contrasti, enucleando e cesellando cellula per cellula il materiale musicale adoperato dal compositore, con il pericolo tuttavia di incartarsi nella fluidità d’assemblamento.

   Il Mahler di Trevino sta a metà strada tra i due poli opposti. È inquieto e incalzante, pervaso da un’irruenza tempestosa, ma non eccessivamente lambiccato. È un Mahler che si infiamma nei passaggi più estroversi e si ripiega - va detto, con un po’ di maniera - allorché la dinamica si fa più soffusa e i tempi si dilatano. Insomma Trevino non è il genere di direttore che asseconda placidamente lo sviluppo orizzontale della sinfonia, modulandone le piccole ondulazioni di percorso per definire un’ampia parabola, ma piuttosto lo spinge in costanti impennate verticali, secondo un andamento quasi sinusoidale. Scelta che si rivela tutt’altro che sprovveduta, dal momento che esige un minore sostegno narrativo e un più limitato lavoro “di fino”, a fronte di un’elevata sollecitazione del virtuosismo “svelto” nei passaggi più accesi, che per altro la bacchetta tiene sempre in saldo controllo.

   Trevino non dà spiegoni, non ha pruriti iperanalitici, ma racconta la sinfonia come fosse un testo teatrale, senza scansare gli spigoli ma nemmeno avvitandosi su sé stesso nella ricerca maniacale del particolare a scapito della visione d'insieme. È per altro un direttore molto “gestuale”, la cui mimica e il cui movimento determinano fortemente la risposta dell’orchestra, ma che dimostra altresì di saper ben concertare, con equilibri interni sempre ben soppesati a dispetto dell’affollamento del palcoscenico, persino sovradimensionato per le dimensioni della sala.

   L’Orchestra della Fenice nell'occasione dà prova di una resistenza da maratoneta e di qualità rimarchevole soprattutto negli archi, che si dimostrano straordinariamente duttili e morbidi nonché capaci di esprimere un legato di sezione d’alta scuola, mentre inciampa in qualche pasticcio disseminato tra i tantissimi fiati. Peccati veniali nei quasi cento minuti lungo cui si espande la Sinfonia.

   Nel complesso di un’esecuzione pregevole le poche riserve riguardano alcuni particolari stridenti, come la marcatura jazzistica di certi portamenti nell’accompagnamento al Lied, per altro meravigliosamente colorato dalla grande Sara Mingardo. Non è una questione stilistica, quanto pragmatica: se determinate idee una volta messe in pratica “suonano male”, nel senso che proprio non vengono, sarebbe saggio accomodarle verso soluzioni più caute.

   È molto positivo il contributo delle voci femminili del Coro della Fenice e dei Piccoli Cantori Veneziani, preparati rispettivamente da Alfonso Caiani e Diana D’Alessio, nel quinto tempo.

Successo caldo ma frettoloso a fine performance.

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