20 settembre 2023

Cavalleria veneziana al Teatro La Fenice

  Quale fosse l’indirizzo della nuova Cavalleria rusticana proposta dal Teatro Fenice lo si poteva indovinare con buona approssimazione ben prima che uscissero le foto di scena, semplicemente scorrendo la locandina. Un regista esperto capace di spremere a fondo le risorse a disposizione come Italo Nunziata e un direttore che rientra nel club degli epigoni della scuola italiana a coordinare un progetto “fatto in casa” che coinvolge, oltre alle maestranze del teatro, anche i giovani dell’Accademia di Belle Arti.

Cavalleria veneziana al Teatro La Fenice

  Che ne uscisse una produzione più conservativa che sperimentale era nell'ordine delle cose. Eppure la tradizione rispolverata da Italo Nunziata - e dagli allievi della Scuola di Scenografia e Costume per lo Spettacolo dell’Accademia di Belle Arti che realizzano scene e costumi - non puzza di stantio e, nella linearità di una narrazione sobria ma ben condotta, si sviluppa con semplicità ma non senza raffinatezza. La Sicilia “tornatoriana” ricostruita dalle scene incastona il racconto in un ambiente rurale che pare imbalsamato in un passato remoto che si ripete ciclicamente, soffocante nella sua ritualità rigidamente codificata. In tal senso rende un ottimo servizio all’impostazione la versatilità dell'impianto scenotecnico che riproduce un piccolo borgo logorato dal tempo. Un disegno semplice sì, con tre pannelli che ruotano cambiando i contorni dello spazio in pochi secondi, ma abbastanza dinamico e vario da assicurare la giusta scorrevolezza al racconto.

  Si incanala nella tradizione anche la direzione di Donato Renzetti, una tradizione in questo caso più compassata e sbrigativa. Renzetti concerta con mestiere e ottiene un bel suono equilibrato e compatto dall'Orchestra della Fenice, ma senza sfruttarne a fondo l'ampiezza delle dinamiche e il potenziale espressivo e patendo qualche scollamento col palcoscenico. Problema che emerge soprattutto nella comunicazione con il coro preparato da Alfonso Caiani, in buona serata, che non è sempre al passo della buca.

  Molto buona la prova di Jean-François Borras, un Turiddu dal timbro e dal peso sostanzialmente lirici ma completamente risolto nel canto, senza forzature, effettacci né segni di cedimento. Silvia Beltrami in certi punti patisce il peso della scrittura di Santuzza, parte breve ma infida come poche, ma non affonda, anzi, firma una prova in crescendo dal punto di vista musicale e convincente nella caratterizzazione del suo personaggio che, in fin dei conti, tra impulsi vili e sensi di colpa è il più interessante dell’opera.

  Dalibor Jenis fa un Alfio senza particolari sfumature, ostentando a pieni polmoni la sua bella voce sana e di buon volume. Chiudono il cast Anna Malavasi, che si destreggia con onore nella parte di Mamma Lucia, e l’ottima Martina Belli, il genere di Lola che nessuna Santuzza vorrebbe mai avere come rivale.

  Successo caloroso per tutta la compagnia.

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