8 novembre 2023

Il Pelléas et Mélisande di Iván Fischer all'Olimpico

  C'è un'impronta naturalistica nel fare musica di Iván Fischer, una neutralità descrittiva che non tradisce anaffettività né freddezza, ma la rinuncia a caricare l'esecuzione di qualsiasi sovrastruttura. Nessuna affiliazione a scuole esegetiche immediatamente riconoscibili, men che meno pose da intellettuale del podio alla ricerca della rivelazione epocale. Il suo affetto genuino per l'arte traspare sin dal gesto, così essenziale e anti-barocco, un gesto che accompagna, guida e suggerisce senza cavillare inutilmente né rimarcare gli afflati espressivi, senza calcare le tinte o spiattellare gli snodi emotivamente più carichi.

Il Pelléas et Mélisande di Iván Fischer all'Olimpico di Vicenza
Pelléas et Mélisande, Vicenza Colorfoto

  Ormai il Vicenza Opera Festival inizia ad avere qualche anno, abbastanza per validarne la resistenza anche allo stress test di periodi complicati, cosa non scontata per una rassegna realizzata intorno a gruppo di musicisti in trasferta con ambizioni tutt'altro che dimesse. Dopo un paio di cartelloni in tono minore, il Pelléas et Mélisande di questo autunno rialza l'asticella, sia per lo sforzo dimensionale di un titolo del genere, sia perché l'approdo del direttore e della sua Budapest Festival Orchestra all’opera è per molti versi illuminante. Non è il classico Pelléas "francesino", diafano e ventoso, ma la traduzione del testo di Debussy nell'idioma di un’orchestra con una forte connotazione timbrico-espressiva che non snatura se stessa per modellarsi sulla tradizione interpretativa.

  C'è dunque un'identità di base che parte dal suono intrinseco dell’orchestra, Fischer tuttavia non cerca di trascinare Debussy da nessuna parte. Non lo scaraventa nelle temperie novecentesche, vivisezionandolo e aguzzandone gli spigoli, e nemmeno lo liricizza come a potabilizzare una scrittura a favore del suo lato più sentimentale, ma lo svela, financo nelle insospettabili accensioni brutali che sì, ci sono e sono scritte nero su bianco, anche se quasi sempre si stemperano nell’atmosfera rarefatta delle concertazioni ipertrasparenti e “garbate” di prassi. E che questo lato lato sanguigno sia lì, in attesa di prorompere, lo dimostra la naturalezza con cui sgorga della partitura appena sollecitato, sia pure con una piccola marcatura di un accento dei contrabbassi.

  Co-firmando anche la regia dello spettacolo in comunione con Marco Gandini, si può dire che almeno nelle intenzioni l'approccio di Fischer alla parte extra-musicale non sia dissimile: inizia dal testo e al testo rimane, senza sofisticarlo. Quel che cambia è il mestiere. Se il Fischer musicista è un ipervirtuoso, anzi, un genio, il Fischer regista è poco più che un dilettante. Certo, deve fare i conti con la scenotecnica di un teatro che non ha praticamente niente di quel che serve per mettere in scena una produzione operistica moderna; il problema è che il team registico non pensa uno spettacolo a misura dell'Olimpico, sfruttandone le peculiarità uniche, ma adatta qualcosa che assomiglia a uno spettacolo canonico ai limiti dell’Olimpico.

  L'orchestra se ne sta sul palco, sparpagliata e camuffata in buffe toghe verdi in mezzo a un groviglio di tronchi e rami che lo ricoprono per intero a riprodurre gli intrecci di una foresta mentre un paio di piccole pedane recintate accolgono le scene al chiuso. Quel che ne esita è uno spettacolo didascalico e quasi ingenuo, che però ha almeno due pregi. Innanzitutto riallaccia il filo con un modo di fare teatro antico che, se perseguito con maggior consapevolezza, avrebbe anche potuto avere cittadinanza in uno spazio simile. Il secondo è che questa regia un po’ naïf lascia trasparire - il come è un mistero - i tratti più disturbanti della pièce. Tutti quei sottili e meno sottili abusi psicologici reciproci, talvolta fisici, le ombre umorali dei personaggi, il clima profondamente malato e tossico di Allemonde in qualche modo escono fuori, a momenti persino con una forza sorprendente. Questi personaggi sbozzati sommariamente riescono a instaurare una connessione con il pubblico, magari non stimolandone l’empatia ma il suo esatto contrario, talvolta il riso involontario, insomma una reazione autentica che diviene palpabile nel lungo silenzio che segue l'ultimo accordo dell'opera.

  È affascinante sotto questo punto di vista la resa di Patricia Petibon, una Mélisande ben cantata ancorché leziosa all’inverosimile, ma epidermicamente odiosa nella sua violenza passivo-aggressiva. Bernhard Richter è un Pelléas un po’ bamboccione e dunque non particolarmente interessante, con i pregi e i difetti dei tenori (nel caso specifico un buon tenore, non un fenomeno) che affrontano la parte: facilità in alto e qualche patimento nell’ottava grave. È invece colossale il Golaud di Tassis Christoyannis, che canta da dio e soprattutto racconta un personaggio che muta continuamente, attraversato e perturbato da qualsiasi emozione dello spettro umano. Franz-Josef Selig è un Arkël dallo strumento maestoso e ben sbalzato tra tenerezza, paternalismo e spregevoli istinti da vecchio bavoso. Prezioso il cameo di Yvonne Naef come Geneviève. Yniold è il dodicenne Oliver Michaele, molto bravo, mentre Peter Harvey si disimpegna negli interventi del medico.

Resta da dire della Budapest Festival Orchestra che è al solito prodigiosa per esattezza esecutiva, pulizia, equilibri interni, “sincronismo”, morbidezza e colore sia d’insieme sia negli interventi dei soli, anche nella curiosa disposizione imposta dalle contingenze, con ottoni e percussioni nascosti in fondo alla scena dietro a una fitta boscaglia.

  Successo molto convinto ma frettoloso a fine recita.

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