24 dicembre 2023

Myung-Whun Chung dirige Beethoven e Stravinskij

   Negli ultimi anni Myung-Whun Chung si è autoesiliato in un repertorio sempre più ristretto, riconducibile grossomodo a una manciata di compositori tra i quali Beethoven occupa una posizione di predominio. Sembrava essere invece sparito dai suoi radar Igor Stravinskij, che pure negli anni francesi alla Bastille prima e all’Orchestre Philharmonique de Radio France poi aveva rivestito un ruolo tutt'altro che marginale nella sua attività, sia dal vivo che in sala di registrazione. Almeno fino ad oggi.

Myung-Whun Chung dirige Beethoven e Stravinskij
foto Teatro La Fenice

   L’occasione di riascoltare Chung alle prese con il compositore russo l’ha offerta il Teatro La Fenice con il secondo concerto della stagione sinfonica 2023-24, primo passo di un riavvicinamento che nei prossimi mesi coinvolgerà anche altre orchestre, tra cui quella di Santa Cecilia, dove a gennaio il direttore coreano riproporrà il medesimo programma: Sinfonia n. 6 in fa maggiore op.68 seguita da Le Sacre du printemps.

   La Pastorale già sulla carta pareva un lavoro che ben si sposa con le caratteristiche del direttore, con la sua delicatezza di trama e il clima arcadico, ideali per un musicista il cui approccio è più versato a legare e ammorbidire che enfatizzare i grandi slanci drammatici. Alla prova dei fatti è proprio così. Chung asseconda lo sviluppo costruttivo della pagina senza sviscerarne con puntiglio didascalico il processo costruttivo tema per tema, ma dando agio ai rivoli orchestrali di distendersi come giocassero a rincorrersi e intrecciarsi. Qualcosa che emerge in particolar modo nel secondo movimento con una naturalezza commovente.

   È un Beethoven sorgivo e crepitante, animato da una equa distribuzione di plasticità nel modellare le voci orchestrali e tensione ritmica, ma altresì privo di gesti teatrali forti o di marcature, come lo pervadesse una serenità di fondo, in cui la natura “evocata” non appare mai come minacciosa o imbronciata nemmeno nei suoi sfoghi più tempestosi, ma conciliante e benigna.

   L’approccio a Le Sacre du printemps non è dissimile. Chung non ne estremizza la dimensione barbarico-tribale, né calca la mano sui tratti animaleschi - quelli che Bernstein riconduceva all’istinto riproduttivo - e grotteschi, ma la sveste delle stratificazioni di significati che vi sono stati accostati nel tempo, limitandosi, si fa per dire, a svelare la pagina. Ne esce una prova di virtuosismo strumentale e pilotaggio ad alta velocità in cui l'impulso ritmico prevale sul colore. Non è insomma un Sacre caricaturale o acuminato, ma più versato alla scorrevolezza e all'equilibrio.

   E qui l'Orchestra della Fenice, già protagonista di una prova maiuscola per nitidezza nella sinfonia di Beethoven, sorprende. Sorprende perché quel velo di cautela e di incertezza che ci si potrebbe aspettare da una formazione disabituata a questo repertorio semplicemente non si avverte. Tutt’altro, l'orchestra non si limita a restituirne un'esecuzione dignitosa e corretta, ma azzanna la pagina con coraggio affidandosi e assecondando il podio in ogni sua sferzata e palesando una qualità dei singoli mai disgiunta dalla brillantezza di fondo dell’amalgama.

   Successo molto caloroso sia dopo la prima parte che a fine concerto.

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