26 giugno 2018

Una nuova Traviata per il Verdi di Trieste

La buona notizia è il pensionamento dell’annunciata Traviata degli specchi – spettacolo glorioso, sia chiaro, ma che ha fatto il suo tempo – a favore di una nuova produzione che, essendo pensata per una tournée del Verdi in Giappone, non poteva che essere affidata alla firma di prima pagina del teatro triestino: Giulio Ciabatti.



Né ci si poteva aspettare che Ciabatti, considerata anche la destinazione dell’allestimento, puntasse su scelte di rottura. La sua è una Traviata di buona tradizione, il che la rende, tra le altre cose, un’ottima merce da esportazione: tradizionale nelle scelte drammaturgiche (senza rinunciare a qualche tocco personale, soprattutto in un terzo atto che racconta bene quel senso di distacco e ripudio per il dolore di Violetta, che muore sola) così come nelle scene di Italo Grassi, che pur senza brillare per sfarzo sono eleganti e ben realizzate.

La regia ha il merito di evitare sottolineature e pose tragiche, puntando piuttosto su una recitazione asciutta e antiretorica che tuttavia non raggiunge la stessa efficacia in tutti gli interpreti. Stranamente infatti risulta più scorrevole per quanto riguarda le controscene e le parti minori piuttosto che per i protagonisti, probabilmente anche a causa dei ribaltoni di cast che hanno movimentato le prove. È lecito aspettarsi che la rigidità di Violetta e Alfredo, entrambi più attenti alle ragioni del canto che a quelle del teatro, andrà sciogliendosi con il passare delle repliche.



Gilda Fiume infatti è una bravissima cantante, ma non è ancora Violetta. Sul canto c’è poco da eccepire: l’intonazione è impeccabile, l’emissione sempre morbida e “a modo”, il controllo della dinamica, a ogni altezza del pentagramma, è totale. Però il personaggio c’è e non c’è, perché l’incisività dell’accento, così come l’intensità della recitazione, vanno ancora approfondite e arricchite.

Luciano Ganci si impone più per bellezza del timbro e volume che per espressività in una parte, quella di Alfredo, che sembra stare un po’ stretta alla sua vocalità esuberante.
Discorso opposto per Filippo Polinelli, il quale non riesce a ripetere le buone prestazioni del recente passato, trovandosi a nuotare nella scrittura di Germont padre.
Sono invece tutti all’altezza i tanti comprimari, sia nel tenere il palco, sia nel venire a capo delle parti vocali.

Dire qualcosa di nuovo in un titolo inflazionato come La Traviata non è facile, ma non è facile nemmeno tenere ben salde le redini di palco e orchestra. Pedro Halffter Caro esce vincitore da entrambe le sfide, riuscendo sì a sostenere il tutto con buon passo e la giusta attenzione alle ragioni del teatro e alle contingenze del mestiere, ma anche a imprimere la propria personalità musicale alla narrazione. L’orchestra di casa è in ottima forma e si esprime al meglio, centrando una leggerezza delle sonorità e una pulizia esecutiva pregevolissime.

Molto positiva anche la prova del Coro del Verdi diretto da Francesca Tosi.

A fine spettacolo è successo, molto caloroso, per tutti.




10 giugno 2018

Gergiev

Lo vedete quel signore laggiù? È Valery Gergiev, uno dei più grandi direttori viventi. Sta in piedi in mezzo ai "suoi" del Mariinskij, con quello struzzicadentino che usa da bacchetta, senza partitura e senza un podio sotto alle scarpe, così può camminarci in mezzo, afferrarli a uno a uno e spremerli, o accarezzarli, può suonare ogni musicista come fosse uno strumento tutto suo. E da ciascuno di loro tira fuori quel suonone russo che se ne frega della trasparenza e ti piomba addosso. E ti prende a sberle.


27 maggio 2018

L'italiana in Algeri al Verdi di Trieste

Prendete un treno, la macchina o quel che vi pare e andate a vedere L’italiana in Algeri in scena al Verdi di Trieste. Perché l’opera è un po’ come il calcio – perdonate l’accostamento – e il lavoro di squadra prevale sempre sui singoli. Qui la squadra c’è ed ha ottime componenti, ma c’è soprattutto un allenatore capace di metterla in campo con delle buone idee e un gioco vincente. Stefano Vizioli infatti, oltre ad essere nominalmente “regista” in locandina, il regista lo fa sul serio, cioè sa far muovere e recitare singoli e coro sulla musica e sa al contempo raccontare una storia dando un’anima ai personaggi. Non è banale in senso assoluto e lo è ancor meno nel Rossini comico, che finisce spesso maldestramente frainteso o, peggio ancora, risolto secondo un inventario di luoghi comuni triti e ritriti. Non è questo il caso, perché Vizioli riesce sì ad essere leggero e spiritoso, ma anche ad emancipare i protagonisti dalla natura di maschere dell’opera buffa, conferendo loro spessore e umanità.

Le scene coloratissime di Ugo Nespolo, artista prestato al teatro d’opera, reinventano le turcherie “da libretto” con un tocco personale un po’ esotico, un po’ fumettistico, un po’ fiabesco e molto, molto appagante per l’occhio.

Foto Fabio Parenzan


Assodato che il regista abbia dei meriti nella riuscita dello spettacolo, sul palco ci vanno i cantanti e nel caso specifico i cantanti sono tutti all’altezza della situazione, in certi casi anche qualcosa di più.

Chiara Amarù si muove nella scrittura di Isabella come un topo nel formaggio: il velluto vocale è quello del classico contralto rossiniano, le agilità sono facili e fluenti e poi c’è, nel suo canto, una propensione per i colori e le sfumature che ne esaltano il virtuosismo tecnico. Il che le consente ad esempio – complice l’ottimo Petrou – di sussurrare a fior di labbra Per lui che adoro, ottenendo uno splendido effetto, e in generale di dare incisività ai recitativi con un’apprezzabile ricchezza di inflessioni e intenzioni.

Anche Nicola Ulivieri è una garanzia, non solo per la musicalità e precisione dello stilista, ma anche per la misura che sa dare a un Mustafà tratteggiato con simpatia e ricchezza di dettagli, pur senza calcare eccessivamente i tratti o, viceversa, inamidarlo nel calligrafismo.

Che Antonino Siragusa fosse un interprete autorevole del repertorio rossiniano lo si sapeva già: coloratura, acuti e sopracuti, mezzevoci hanno sempre fatto parte del suo bagaglio. Oggi tutto ciò rimane invariato, ma con il doppio del volume rispetto a qualche anno fa. Chapeau.

Il Taddeo di Nicolò Ceriani ha innanzitutto un grande merito: evita quegli eccessi caricaturali cui cedono spesso e volentieri i buffi, senza però privare di spirito e verve il personaggio. Nessuna sorpresa invece dalla vocalità che, come a Trieste sanno bene, è sana, ampia e squillante.

Giulia Della Peruta è il tipo di artista da scritturare sempre, perché pensa al teatro prima che alle note; quindi recita, ci crede, dà senso a ogni parola che va cantando e a ogni gesto anche in una parte minore come quella di Elvira. I “comprimari” così fanno la fortuna delle produzioni operistiche.

Onesto l’Haly di Shi Zong, bene la Zulma di Silvia Pasini.

Foto Fabio Parenzan


George Petrou, come si era capito già nella Cenerentola della scorsa stagione, è un direttore di razza che conduce il racconto con mano leggera e con la giusta brillantezza, senza perdersi mai il palco e centrando una pulizia e una precisione impeccabili, sia in orchestra che sul palco: i concertati sono equilibratissimi, i sillabati dei cantanti chiari, ritmicamente squadrati e perfettamente “appoggiati” sull’orchestra.
Non solo, Petrou è il tipo di direttore che si fa sentire senza farsi notare: la sua direzione è così scorrevole, fresca e (apparentemente) spontanea che quasi non ci si fa caso, perché la buca non è né protagonista né relegata al semplice accompagnamento, ma si fonde con il canto trasformandosi in puro teatro. Rossini ringrazia.

L’Orchestra del Verdi è in ottima forma, scattante e limpida, con i legni sugli scudi. Bene anche le voci maschili del Coro di casa, al solito preparato da Francesca Tosi.

Buon successo di pubblico. Si replica fino al 3 giugno, da non perdere.

Paolo Locatelli
© Riproduzione riservata

Foto Fabio Parenzan

19 maggio 2018

Jan Lisiecki e Michel Tabachnik a Pordenone

Non è la prima volta di Jan Lisiecki sul palco del Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone. Già vi transitò, sempre accanto all’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, un paio d’anni fa e vi ha fatto ritorno nei giorni scorsi per il concerto che ha chiuso la stagione musicale del teatro, riproponendo il suo collaudatissimo Chopin.

Rispetto ad allora, tuttavia, quello che si è ascoltato è un artista decisamente più maturo, sia nel gusto musicale, più asciutto ed essenziale, sia nella presenza del suono, che pur mantenendo la brillantezza e la bellezza intrinseca di allora si è fatto più corposo. Se la tecnica è quella che ci si aspetta da una stellina Deutsche Grammophon, quindi limpidezza, precisione chirurgica nelle biscrome e nei trilli, fluidità sulla tastiera, Lisiecki ha anche altro da offrire: è sì un ventenne che suona un pezzo composto da un ventenne innamorato – il Concerto n. 2 in fa minore op. 21 è licenziato da Chopin nel 1830, ispirato da quella Konstancja Gladkowska che egli definì “il mio ideale... quella che sogno” – ma è anche un musicista che respira la contemporaneità. Nessuna leziosaggine dunque, smancerie bandite né alcuna concessione a quel sentimentalismo mellifluo che finisce spesso per banalizzare il pianismo di Chopin.

Avrebbe dovuto esserci Mirga Gražinytė-Tyla al suo fianco, la quale ha dato forfait a pochi giorni dal concerto. L’ha sostituita l’esperto Michel Tabachnik, che conosce a fondo il mestiere e sa tenere ben salde le redini di un’orchestra, ma che certo non ha l’appeal mediatico della giovane direttrice lituana, né una personalità d’interprete tale da spazzare via ogni rimpianto per la sostituzione.

Certo Tabachnik sa indubbiamente dirigere e soprattutto sa concertare: il suono è sempre nitido ed equilibrato, la dinamica è ricca, il balancing e gli equilibri interni sono ben ponderati. C’è poi un gusto per la ricerca del dettaglio strumentale che ben si sposa con la scrittura orchestrale dei lavori in programma. Però il suo Bartók (Concerto per orchestra Sz. 116) è così morbido e rassicurante da tradire qualche eccesso di cautela e, soprattutto, si sviluppa lungo un percorso che appare chiaro sin dalle prime battute, senza sorprese né tradimenti. Non una sferzata, non un lampo, nessuno scarto bruciante che accenda lo svolgimento o lo scardini dai binari del buonsenso.

È su per giù lo stesso nel Prélude à l’après-midi d’un faune che apre il concerto: il giusto sfumato, il giusto morbido, il giusto sensuale. Tutto giusto ma tutto telefonatissimo.

Lo asseconda al meglio l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, che sicuramente avrebbe anche altro da offrire in termini di virtuosismo ed energia, ma che garantisce tutta la qualità timbrica e strumentale (benissimo le prime parti) e la trasparenza che le appartengono.

Buon successo per direttore e orchestra, trionfo da popstar per Lisiecki, con ovazioni e pupazzetti di peluches offerti in dono dal pubblico.

Recensione pubblicata su OperaClick

18 maggio 2018

Veronika Eberle, Antonio Pappano e la Chamber Orchestra of Europe

È sufficiente il Concert Romanesc di György Ligeti per mettere in chiaro le cose: la Chamber Orchestra of Europe vale la sua fama. Tutto il virtuosismo strumentale che la scrittura sollecita ed esige non solo è facilissimo e fluente, ma si coniuga con una bellezza “calda” di suono persino sorprendente per un’orchestra cameristica (in fondo capita spesso che l’assottigliamento dell’organico si traduca in secchezza timbrica, non è questo il caso) e a una miriade di colori. E poi la qualità delle prime parti è superlativa, dalla spalla ai fiati tutti, così come la coesione d’insieme.


Insomma la COE è il classico ensemble che potrebbe suonare da solo, senza che nessuno se ne accorga o senta la mancanza di un manico. Però Antonio Pappano non è tipo da lasciare che un’orchestra vada per la sua strada, tutt’altro, è uno che sa dare la propria impronta, inconfondibile, sia in termini di concertazione che di interpretazione vera e propria. E se la prima è fondamentalmente questione di articolazione e dinamica – certi strappi e certi salti nel vuoto sono da brividi, sin dall’Andantino del Concert Romanesc – la seconda è innervata da una tale passionalità che sembra trascendere lo studio a tavolino. Evidentemente non è possibile che sia così, se non in minima misura: c’è una preparazione dietro, c’è un pensiero, però Pappano sa profondere una spontaneità al discorso che pare farlo sgorgare sul momento, come gli viene. E ciò è ancor più evidente nel Brahms del Concerto in re maggiore op. 77 che, a dispetto del ruolo (apparentemente) comprimariale affidato all’orchestra, è infiammato con una veemenza e da una fantasia che spalancano nuove prospettive sull’universo brahmsiano. E in un clima simile ci sta benissimo Veronika Eberle, il cui suono caldo e antico esce valorizzato dall’abbraccio appassionato dell’orchestra. È un violinismo, quello della Eberle, improntato a un’espressività lirica e cantabile che esalta l’anima romantica del concerto, pur senza estremizzarne i caratteri fin oltre i limiti della stucchevolezza. E poi, come ormai si dà per scontato, il controllo tecnico è ineccepibile, sia nel virtuosismo, sia semplicemente nel legato o nell’intonazione.

Anche nel Brahms giovanile della Serenata n. 1 in re maggiore op. 11 l’approccio di Pappano non cambia, quindi grande impeto e lirismo, un’attenzione ai fraseggi e allo sviluppo delle singole linee che scaccia ogni minaccia di monotonia, varietà ben marcata di approccio e intenzioni per ogni movimento. Il passaggio dal vitalismo dell’Allegro molto alla delicatezza intimista dell’Adagio, o quella più civettuola del Menuetto, non solo è sensibile, ma riesce a svolgersi con una naturalezza e una consequenzialità narrativa prodigiose.

Un’elettrizzante Overture da La Scala di Seta rossiniana congeda un pubblico festante. Trionfo.

Recensione pubblicata su OperaClick

9 maggio 2018

Vilde Frang e Sakari Oramo al Giovanni da Udine

Vilde Frang è la nemesi di certo violinismo baraccone e circense che infiamma le folle. Davanti ai milleduecento spettatori malcontati del Giovanni da Udine lei sembra suonare per sé stessa, o meglio per la Musica, senza la smania di stupire o di dimostrare quanto sia brava. E brava lo è per davvero, anzi, è qualcosa di più: è un’artista. Ha classe, gusto, sa dare intensità senza rimarcare niente, ha un controllo dello strumento assoluto che pur viene trasceso dall’asciuttezza del suo procedere per sottrazione.

Certo il Concerto n.1 per violino e orchestra di Béla Bartók non è un cimento insormontabile, almeno dal punto di vista tecnico, eppure forse proprio per questo non dà modo di bluffare, né di spostare l’attenzione dalla sostanza al virtuosismo. Rimane una linea musicale, tutto sommato semplice, cui dare significato e autenticità, e la Frang centra il bersaglio, dimostrando una sensibilità d’interprete che non ha bisogno del suono lussureggiante o di una cavata dopata per uscire.

Il fatto che alle sue spalle ci siano Sakari Oramo e la sua Royal Stockholm Philharmonic Orchestra le gioca indubbiamente a favore. Il primo è un direttore che ormai, dopo gli anni a Birmingham e alla BBC Symphony, saltella tra i podi delle orchestre più prestigiose al mondo, e se ne intuiscono facilmente le ragioni, perché unisce tecnica, musicalità e una bella dose di fantasia. La Filarmonica di Stoccolma, che al direttore finlandese è legata stabilmente da dieci anni, è poi un’ottima formazione, più per la compattezza e l’uniformità dell’amalgama – ulteriore merito del direttore principale – che per la qualità delle prime parti. Il suono è ricco e brillante, equilibrato e terso in ogni gradazione dinamica, la pulizia esecutiva sfiora la perfezione.

Se il brano di apertura, Jubilate di Benjamin Staern (datato 2009), che è un bel pezzone piacevole e catchy, dà subito occasione all’orchestra di mettere in luce lo splendore della pasta e il virtuosismo ritmico, è con il Mahler della Prima sinfonia in re maggiore che si misura il suo reale valore. Valore che viene esaltato dalla concertazione e dalla direzione di Sakari Oramo, che fa un Mahler al calor bianco, tutto di pelle e tutto “suonato”, senza trucchetti o sottotesti. Tecnicamente il controllo dell’orchestra è impeccabile: pur dirigendo a memoria, a Oramo non sfugge un attacco né un battito, pesa al grammo gli equilibri interni (anche nei fortissimi, che sono veri e propri fortissimi, il nitore non viene mai meno), le dinamiche sono curatissime sin dall’attacco, meraviglioso, con tutti i pianissimi e i ppp appena bisbigliati e gli sforzando dei legni ben marcati. E poi c’è, appunto, un entusiasmo quasi infantile nel raccontare la musica che ne infiamma lo sviluppo. Al netto delle sonorità, che dove serve sono belle imponenti, Oramo non si impantana in un titanismo serioso e magniloquente, ma alimenta la vena danzante della sinfonia, la sua vitalità dionisiaca (ad esempio è geniale, nel terzo movimento, nello stringere progressivamente il tema degli oboi quasi fosse una ciarda) e non si perde in compiacimenti ritmici o in struggimenti, ma dà alla sinfonia un taglio fresco e discorsivo. La qualità della Royal Stockholm Philharmonic, che risponde scattante e precisissima, fa il resto.

Dopo la prima parte è trionfo personale per Vilde Frang, mentre a fine concerto sono orchestra e direttore a guadagnarsi l’entusiasmo del pubblico udinese, salutato dalla Vallflickans Dans di Hugo Alfvén.

Recensione pubblicata su OperaClick

21 aprile 2018

Così fan tutte al Verdi di Trieste

Un Così fan tutte in abiti tradizionali è sempre rinunciatario, o quantomeno rischioso. La fedeltà al Libretto, in maiuscolo come fosse il Verbo, per quanto possa chiarire più agilmente gli snodi drammaturgici e dare loro credibilità – ma siamo così sicuri che nell’opera di Mozart la credibilità, intesa come verosimiglianza, sia fondamentale? – allarga la distanza che separa pubblico e personaggi, che in fondo non sono altro che esseri umani al cubo, oggi come ieri. E cos’è Così fan tutte, se non un trattato sull’essere umano? Tra realtà e finzione, maschere che si indossano e maschere che cadono, sentimenti che scalciano e certezze che si frantumano, il protagonista dell’opera è l’uomo (o la donna, fa lo stesso), ritratto in tutte le sue debolezze e contraddizioni. Così fan tutte per dire “così son tutti”, pupazzetti in balia della vita e di se stessi.
Lo racconta la trama quanto sia facile ingannare chi vuol essere ingannato, o fingere di non vedere l’evidenza più evidente, quando fa comodo. Le carnevalate sono solo un pretesto.

Foto Fabio Parenzan

Di questo ginepraio di affetti e turbamenti nell’allestimento in scena al Verdi di Trieste non resta che qualche traccia, ben nascosta sotto gli abiti e dietro le scene lussureggianti di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo. Il che non è un male in senso assoluto, di Così fan tutte ipertradizionali se ne sono sempre fatti e visti a centinaia, ma è una scelta che indirizza il taglio interpretativo, portando necessariamente a privilegiare l’aspetto farsesco su quello patetico e quindi l’azione sull’introspezione.

La regia di Giorgio Ferrara, ripresa da Patrizia Frini, è poi tendenzialmente saputa, ha qualche finezza e molta polvere e a tratti pare lasciata all’iniziativa dei singoli, soprattutto nelle arie, mentre è orchestrata con più attenzione nei finali d’atto.

Foto Fabio Parenzan

Anche Oleg Caetani, pur concertando con attenzione, naviga sulla superficie degli abissi mozartiani. Certo il suono è pulitissimo e “bello”, fatto salvo qualche piccolo sbandamento interno e di comunicazione con il palco nel primo atto, però la ristrettezza del ventaglio dinamico e la mancanza di respiro sacrificano molto dell’ambiguità e del non detto. Se c’è un opera in cui ogni singolo scarto dinamico, ogni pausa o corona, ogni minimo dettaglio musicale ha un significato drammaturgico, questa è proprio Così fan tutte, eppure nel suo antiedonismo “squadrato” e canoviano Caetani se lo dimentica spesso, così come si dimentica di aiutare i cantanti, che in più di un’occasione faticano a seguire la rapidità dei tempi imposti dal podio e “tirano indietro”.
Per quanto riguarda le scelte testuali, c’è qualche sfrondata di troppo ai recitativi, oltre ai tradizionalissimi sacrifici del “duettino” e della seconda aria del tenore. Transeat.

Foto Fabio Parenzan

Il cast, composto prevalentemente da giovani artisti di belle speranze, se la cava complessivamente bene.

Karen Gardeazabal sta meglio in alto che in basso, ma dà corpo e voce a una Fiordiligi tutto sommato convincente. Anche se qualche passaggio è affrontato con cautela, il personaggio c’è, le note anche e, soprattutto, c’è l’impressione che questo giovane soprano abbia dei grandi margini di miglioramento.
Ha una bella voce calda, benché piccolina, e sa cantare come si deve Aya Wakizono, Dorabella cui manca solo un pizzico di fantasia nei recitativi. Qualità che invece possiede Giulia Della Peruta (Despina), la quale è una vera attrice-cantante, cioè quello che servirebbe sempre per il teatro mozartiano. A dispetto di qualche leggera increspatura in acuto, il soprano ha verve, dice e accenta con espressività e tiene benissimo il palco.
Vincenzo Nizzardo è un Guglielmo di bella voce e presenza. Il timbro è brillante e giovanile, il canto centra un giusto compromesso tra machismo di maniera e morbidezza.
Giovanni Sebastiano Sala ha un colore affascinante, più corposo e brunito di quanto si sia soliti ascoltare in questo repertorio, ha buon volume e musicalità, ma soffre di qualche tensione sul passaggio e nei primi acuti. Nell’Aura amorosa non lo aiuta certo Caetani, che stacca l’Andante cantabile con un eccesso di intransigenza che spezza i fiati del tenore.
L’anello debole della compagnia è Abramo Rosalen, il quale fatica a piegare il suo vocione torrenziale alla scrittura di Alfonso, sia nel canto, sia nei recitativi, che riescono tendenzialmente piatti e troppo “parlati”.

È sempre all’altezza il Coro del Verdi, preparato da Francesca Tosi.

Buon successo a fine spettacolo.

Paolo Locatelli
© Riproduzione riservata


Il Mozart di Regula Mühlemann e Umberto Benedetti Michelangeli

Ha una bella voce di soprano lirico leggero Regula Mühlemann, che guadagna smalto e proiezione man mano che sale verso l’acuto. Cristallina, omogenea e rotonda nell’ottava superiore – ancora un po’ vuota in basso, ma col tempo si farà – quella della Mühlemann è una vocalità che si sposa bene con la scrittura mozartiana. La qual cosa significa che ha quel legato “da violino” necessario per mantenere la linea nelle lunghe arcate melodiche, sempre così fragili in Mozart, ha ottime agilità (in certi punti leggermente scivolose, ma sono inezie) e sa dosare la dinamica dal piano al forte senza fratture. Certo si parla di una voce ancora giovane, non solo per spessore ma anche per maturità tecnica, e che quindi qua e là perde un po’ di sostegno del fiato o trascura qualche dettaglio, ma che potenzialmente possiede tutto quel che serve per fare una carriera importante. Non è un caso che Sony e Deutsche Grammophon abbiano deciso di scommettere su di lei. C’è poi nella sua freschezza adolescenziale una pressoché totale assenza di vezzi o manierismi, che guasterebbero la spontaneità di un canto tanto limpido.

Foto Shirley Suarez Padilla 
È anche bellissima a vedersi Regula Mühlemann, il che non guasta affatto. L’ha potuto apprezzare il pubblico del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, dove il soprano ha proposto un centone del suo recital di arie mozartiane inciso un paio d’anni fa proprio per Sony.

Se nell’Exsultate Jubilate parte cauta, o forse semplicemente fredda, e trascura qualcosa in termini di accentazione e varietà di sfumature, già nell’esecuzione di Ah, lo previdi!… Ah, t’invola… Deh, non vacar ecco che spuntano quel temperamento e quella capacità di dominare il fraseggio che parevano inizialmente mancare. In questa grande scena, tratta dal terz’atto dell’Andromeda di Vittorio Amedeo Cigna-Santi, Mozart è, se non spietato, estremamente esigente con la voce, sia per l’impegno tecnico richiesto, sia per la sostanza fortemente teatrale del brano, che sollecita un canto che non può limitarsi all’esecuzione delle note, sia pur precisissima. È insomma un bignamino di scrittura vocale, che spazia dal declamato furoreggiante del recitativo iniziale al lirismo spianato delle delicatissime linee della sezione finale, e Regula Mühlemann dimostra di dominare questo ventaglio tecnico-espressivo in tutta la sua ampiezza.

L’aria da concerto Ah se in ciel, benigne stelle è un banco di prova per fuoriclasse e la Mühlemann ne esce a testa alta, con tutta la fluidità della coloratura necessaria e la giusta morbidezza negli sbalzi di registro. E se in qualche frase arriva a pelo con il fiato, sa mascherarlo benissimo.

Umberto Benedetti Michelangeli che, dal podio della Kammerorchester Basel, ha accompagnato il soprano, tra un’aria e quell’altra si è concesso – e ha concesso al pubblico – il lusso di eseguire due sinfonie mozartiane, la 34 in do maggiore e la 36 KV 425 “Linz”. L’approccio è quello storicamente informato, quindi organico stringato, rinuncia totale all’edonismo (e con esso a certi eccessi di vibrato e legato), articolazione netta e spigolosa, tempi tendenzialmente spediti. Chiaramente gli strumenti espressivi si riducono al cesello su dinamiche, accentazione e fraseggi, poiché l’impostazione stessa delle sonorità limita di molto le possibilità di giocare sui colori, il che funziona benissimo soprattutto nei movimenti più accesi, che riescono tesi e infuocati.

La Kammerorchester Basel è limpida e scattante, sbava qualcosa tra gli archi nei passaggi più frenetici, ma è sorprendentemente pulitissima nei fiati (corni naturali così irreprensibili sono merce rara).

Buona l’accoglienza del pubblico a fine concerto.


18 aprile 2018

Edward Gardner e Viktoria Mullova al Giovanni da Udine

Probabilmente il nome suonerà sconosciuto ai più, ma la Bergen Philharmonic Orchestra è tutt’altro che una formazione di seconda fascia. Scattante, nitida, tipicamente nordica per limpidezza e luminosità del colore, la Filarmonica norvegese è l’archetipo dell’orchestra di scuola scandinava – quella dei Göteborgs Symfoniker, della Swedish Radio Symphony Orchestra, della Filarmonica di Oslo, per intendersi – che non confonde mai la chiarezza con la secchezza, né la leggerezza con l’inconsistenza. Un’orchestra più votata alla trasparenza che alla compattezza, sia per la qualità del suono, che permette rotondità ed equilibrio in ogni gradazione dinamica, sia per la natura stessa della sua pasta, la cui tavolozza timbrica esplora mille gradazioni di colori freddi.


Caratteristiche che si sposano a meraviglia con la freschezza del suo direttore principale Edward Gardner, musicista analitico e antiretorico, capace di sfruttare e incoraggiare la prodigiosa malleabilità dinamica dell’orchestra e che si prestano altrettanto bene a sostenere il violino di Viktoria Mullova. L’artista russa ha infatti un suono tendenzialmente piccolo e penetrante, intrinsecamente bello, che forse soffrirebbe un accompagnamento più denso, almeno nella grande sala del Teatro Nuovo Giovanni da Udine, ma che invece può svilupparsi in tutto il suo raffinato intimismo sul cuscino delicato dei filarmonici di Bergen. Il Sibelius del Concerto op. 47 per violino e orchestra è, nelle mani della Mullova, elegante e flessibile, impeccabile nel virtuosismo (la sinistra è agilissima) e nell’intonazione, ma soprattutto improntato a un’espressività asciutta e pudica. Non stupisce affatto il successo clamoroso che le tributa il pubblico.

I brani dedicati alla sola orchestra, oltre a mettere completamente in luce le sue qualità, dicono molto di Edward Gardner, il quale non è solo direttore dal gesto nobile e dalla solida tecnica, ma possiede almeno altri due pregi che ne qualificano la statura. Il primo è la capacità di dare coesione e coerenza narrativa a quanto dirige, lo si apprezza forse ancora più nella Sinfonia n. 5 op. 82 dello stesso Sibelius – tesa e montante, che culmina in un terzo movimento staccato rapido ma pervaso da una grande cantabilità – che nell’Ouverture-fantasia Romeo e Giulietta di Čajkovskij. Il secondo asso nascosto nella manica del direttore inglese è una propensione al dettaglio, sia nello sviluppo delle singole linee, sia nei rapporti interni tra sezioni o singoli strumenti, che non tradisce mai velleità di calligrafismo.

La sintesi è un perfetto equilibrio tra intensità del discorso musicale e perfezione strumentale, che per di più si giova dell’idiomaticità timbrica della Filarmonica di Bergen per il repertorio in programma.

Non sorprende che il pubblico udinese, che pur è abituato a compagini di primissimo livello, saluti trionfalmente orchestra e direttore a fine concerto.

3 aprile 2018

Vladimir Jurowski, Lisa Batiashvili e la GMJO in concerto a Pordenone

La Gustav Mahler Jugendorchester di Vladimir Jurowski è come Violetta nella mitologia loggionistica: ha tre voci. Un vocione grosso per il Lutoslawski della Sinfonia n.1, un colore pastoso e lussureggiante per Szymanowski e infine una trasparenza vagamente ambrata per un Debussy che è sì vaporoso e flessibile, ma senza certa lascivia di maniera. E tutto ciò sebbene l’orchestra, che torna a Pordenone dopo la residenza estiva e la doppia inaugurazione di stagione, abbia un’identità timbrica definita e riconoscibile, che resiste al passare degli anni e ai rinnovamenti di organico. D’altronde il grande direttore è quello che, tra le altre cose, riesce anche ad incidere sulla pasta di un’orchestra, plasmandola secondo le proprie intenzioni. Ma Vladimir Jurowski non è solo questo: è un concertatore di livello assoluto – e la compattezza degli archi, la quadratura musicale o la calibratura degli equilibri interni stanno lì a dimostrarlo – ma è anche un direttore “da podio”. Ciò significa che unisce alla grande tecnica un carisma che rende ogni gesto, sia pure il cenno più minuscolo, musicalmente determinante.

Foto Luca d'Agostino
E se Lutoslawski e Szymanowski danno la misura del Jurowski virtuoso, cui non sfugge una semicroma o un attacco, con Debussy si ha la certezza che l’interprete non sia da meno.

Perché le sue Images sono innanzitutto molto personali nel suono, che pare nascere da una sintesi perfetta tra un gusto nord europeo per la trasparenza e un calore prettamente russo, che scalpita ed emerge per animare gli incisi più lirici e cantabili. E poi, oltre alla cura per il colore, c’è un’elettricità serpeggiante che va di pari passo con la flessibilità dell’agogica (come stiracchia leggermente quelle terzine che aprono la Sevillana!) e che viene ulteriormente alimentata da certe sferzate nette all’articolazione, soprattutto quella degli archi.

Per il Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone la Gustav Mahler Jugendorchester è ormai l’orchestra di casa – e c’è da sperare che lo rimanga il più a lungo possibile, intanto è ufficiale che sarà sempre essa ad inaugurare la prossima stagione, accanto a Gautier Capuçon – e pare persino stucchevole aggiungere elogi agli elogi già spesi. C’è però una cosa che continua a sorprendere, concerto dopo concerto, forse persino più della perfezione strumentale, ed è quell’entusiasmo che si trasforma in energia e quindi ancora in generosità verso il pubblico, quell’impressione di assistere a peripezie sul vuoto senza rete di protezione. Ecco, i ragazzi della Mahler non danno mai l’idea di suonare per mestiere, o di adagiarsi su una routine di altissimo livello, ma ci mettono sempre tutto quello che hanno. Osano, rischiano, si spingono fino al limite estremo delle proprie possibilità, eppure, a dispetto di tutto ciò, pare che non sbaglino mai una nota.

Che poi si tratti di professionisti di primissimo livello lo si capisce ancora una volta da come si mangiano la scrittura arroventata della Prima sinfonia di Lutoslawski, che scivola via fluida e compatta come fosse repertorio del più banale. E anche qui Jurowski è capace di lanciare certe fiammate impressionanti, dimostrando un dominio dell’orchestra totale e una concentrazione che non scende mai sotto il livello di guardia.

Resta da dire del Concerto per violino e orchestra n.1 op. 35 di Karol Szymanowski, che è da manuale, né più, né meno. Innanzitutto per la classe di Lisa Batiashvili, al debutto nel brano e sul palco del Verdi, poi per la straordinaria qualità dell’intesa tra direttore e solista, i quali non danno mai l’impressione di andare l’uno a rimorchio dell’altra. E che il direttore non abbia intenzione di fare il comprimario lo si capisce da subito, perché già l’attacco del concerto è cosa da artista di razza.

La Batiashvili è una grande musicista e una musicista moderna. Ed è tale per la pulizia del gusto, per il nitore del suono (bello ma contenuto, senza eccessi di vibrato o un inspessimento artificioso dell’ampiezza di cavata) ma soprattutto per la spontaneità che sa dare al discorso musicale. Cosa che le riesce grazie alla qualità del legato, che non viene meno neanche nei passaggi di maggiore virtuosismo, e alla precisione musicale, soprattutto ritmica. La quale pare tener conto di un concetto che Alfred Brendel – presente in sala per ritirare il Premio Pordenone Musica – ha spiegato al pubblico pordenonese la sera precedente, durante una sorta di lezione concerto condivisa con il giovane (e bravo!) pianista Filippo Gorini: la percezione della libertà ritmica che ha un musicista mentre suona non coincide necessariamente con l’aspettativa del pubblico. Ed è proprio così, siano esse scelte interpretative o espedienti per aggiustare la scrittura alle mani, certe libertà nel plasmare il tempo possono risultare stridenti o incomprensibili a chi ascolta. Ma questo rischio non riguarda la Batiashvili, il cui virtuosismo morbido e liquido è, appunto, perfettamente incardinato nel ritmo e da lì non sgarra, eppure talmente controllato e spontaneo da allontanare ogni spettro di meccanicità.

Dopo due ore abbondanti di musica, è trionfo per tutti.

Recensione pubblicata su OperaClick