26 giugno 2018

Una nuova Traviata per il Verdi di Trieste

La buona notizia è il pensionamento dell’annunciata Traviata degli specchi – spettacolo glorioso, sia chiaro, ma che ha fatto il suo tempo – a favore di una nuova produzione che, essendo pensata per una tournée del Verdi in Giappone, non poteva che essere affidata alla firma di prima pagina del teatro triestino: Giulio Ciabatti.



Né ci si poteva aspettare che Ciabatti, considerata anche la destinazione dell’allestimento, puntasse su scelte di rottura. La sua è una Traviata di buona tradizione, il che la rende, tra le altre cose, un’ottima merce da esportazione: tradizionale nelle scelte drammaturgiche (senza rinunciare a qualche tocco personale, soprattutto in un terzo atto che racconta bene quel senso di distacco e ripudio per il dolore di Violetta, che muore sola) così come nelle scene di Italo Grassi, che pur senza brillare per sfarzo sono eleganti e ben realizzate.

La regia ha il merito di evitare sottolineature e pose tragiche, puntando piuttosto su una recitazione asciutta e antiretorica che tuttavia non raggiunge la stessa efficacia in tutti gli interpreti. Stranamente infatti risulta più scorrevole per quanto riguarda le controscene e le parti minori piuttosto che per i protagonisti, probabilmente anche a causa dei ribaltoni di cast che hanno movimentato le prove. È lecito aspettarsi che la rigidità di Violetta e Alfredo, entrambi più attenti alle ragioni del canto che a quelle del teatro, andrà sciogliendosi con il passare delle repliche.



Gilda Fiume infatti è una bravissima cantante, ma non è ancora Violetta. Sul canto c’è poco da eccepire: l’intonazione è impeccabile, l’emissione sempre morbida e “a modo”, il controllo della dinamica, a ogni altezza del pentagramma, è totale. Però il personaggio c’è e non c’è, perché l’incisività dell’accento, così come l’intensità della recitazione, vanno ancora approfondite e arricchite.

Luciano Ganci si impone più per bellezza del timbro e volume che per espressività in una parte, quella di Alfredo, che sembra stare un po’ stretta alla sua vocalità esuberante.
Discorso opposto per Filippo Polinelli, il quale non riesce a ripetere le buone prestazioni del recente passato, trovandosi a nuotare nella scrittura di Germont padre.
Sono invece tutti all’altezza i tanti comprimari, sia nel tenere il palco, sia nel venire a capo delle parti vocali.

Dire qualcosa di nuovo in un titolo inflazionato come La Traviata non è facile, ma non è facile nemmeno tenere ben salde le redini di palco e orchestra. Pedro Halffter Caro esce vincitore da entrambe le sfide, riuscendo sì a sostenere il tutto con buon passo e la giusta attenzione alle ragioni del teatro e alle contingenze del mestiere, ma anche a imprimere la propria personalità musicale alla narrazione. L’orchestra di casa è in ottima forma e si esprime al meglio, centrando una leggerezza delle sonorità e una pulizia esecutiva pregevolissime.

Molto positiva anche la prova del Coro del Verdi diretto da Francesca Tosi.

A fine spettacolo è successo, molto caloroso, per tutti.




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