9 maggio 2018

Vilde Frang e Sakari Oramo al Giovanni da Udine

Vilde Frang è la nemesi di certo violinismo baraccone e circense che infiamma le folle. Davanti ai milleduecento spettatori malcontati del Giovanni da Udine lei sembra suonare per sé stessa, o meglio per la Musica, senza la smania di stupire o di dimostrare quanto sia brava. E brava lo è per davvero, anzi, è qualcosa di più: è un’artista. Ha classe, gusto, sa dare intensità senza rimarcare niente, ha un controllo dello strumento assoluto che pur viene trasceso dall’asciuttezza del suo procedere per sottrazione.

Certo il Concerto n.1 per violino e orchestra di Béla Bartók non è un cimento insormontabile, almeno dal punto di vista tecnico, eppure forse proprio per questo non dà modo di bluffare, né di spostare l’attenzione dalla sostanza al virtuosismo. Rimane una linea musicale, tutto sommato semplice, cui dare significato e autenticità, e la Frang centra il bersaglio, dimostrando una sensibilità d’interprete che non ha bisogno del suono lussureggiante o di una cavata dopata per uscire.

Il fatto che alle sue spalle ci siano Sakari Oramo e la sua Royal Stockholm Philharmonic Orchestra le gioca indubbiamente a favore. Il primo è un direttore che ormai, dopo gli anni a Birmingham e alla BBC Symphony, saltella tra i podi delle orchestre più prestigiose al mondo, e se ne intuiscono facilmente le ragioni, perché unisce tecnica, musicalità e una bella dose di fantasia. La Filarmonica di Stoccolma, che al direttore finlandese è legata stabilmente da dieci anni, è poi un’ottima formazione, più per la compattezza e l’uniformità dell’amalgama – ulteriore merito del direttore principale – che per la qualità delle prime parti. Il suono è ricco e brillante, equilibrato e terso in ogni gradazione dinamica, la pulizia esecutiva sfiora la perfezione.

Se il brano di apertura, Jubilate di Benjamin Staern (datato 2009), che è un bel pezzone piacevole e catchy, dà subito occasione all’orchestra di mettere in luce lo splendore della pasta e il virtuosismo ritmico, è con il Mahler della Prima sinfonia in re maggiore che si misura il suo reale valore. Valore che viene esaltato dalla concertazione e dalla direzione di Sakari Oramo, che fa un Mahler al calor bianco, tutto di pelle e tutto “suonato”, senza trucchetti o sottotesti. Tecnicamente il controllo dell’orchestra è impeccabile: pur dirigendo a memoria, a Oramo non sfugge un attacco né un battito, pesa al grammo gli equilibri interni (anche nei fortissimi, che sono veri e propri fortissimi, il nitore non viene mai meno), le dinamiche sono curatissime sin dall’attacco, meraviglioso, con tutti i pianissimi e i ppp appena bisbigliati e gli sforzando dei legni ben marcati. E poi c’è, appunto, un entusiasmo quasi infantile nel raccontare la musica che ne infiamma lo sviluppo. Al netto delle sonorità, che dove serve sono belle imponenti, Oramo non si impantana in un titanismo serioso e magniloquente, ma alimenta la vena danzante della sinfonia, la sua vitalità dionisiaca (ad esempio è geniale, nel terzo movimento, nello stringere progressivamente il tema degli oboi quasi fosse una ciarda) e non si perde in compiacimenti ritmici o in struggimenti, ma dà alla sinfonia un taglio fresco e discorsivo. La qualità della Royal Stockholm Philharmonic, che risponde scattante e precisissima, fa il resto.

Dopo la prima parte è trionfo personale per Vilde Frang, mentre a fine concerto sono orchestra e direttore a guadagnarsi l’entusiasmo del pubblico udinese, salutato dalla Vallflickans Dans di Hugo Alfvén.

Recensione pubblicata su OperaClick

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