3 aprile 2018

Vladimir Jurowski, Lisa Batiashvili e la GMJO in concerto a Pordenone

La Gustav Mahler Jugendorchester di Vladimir Jurowski è come Violetta nella mitologia loggionistica: ha tre voci. Un vocione grosso per il Lutoslawski della Sinfonia n.1, un colore pastoso e lussureggiante per Szymanowski e infine una trasparenza vagamente ambrata per un Debussy che è sì vaporoso e flessibile, ma senza certa lascivia di maniera. E tutto ciò sebbene l’orchestra, che torna a Pordenone dopo la residenza estiva e la doppia inaugurazione di stagione, abbia un’identità timbrica definita e riconoscibile, che resiste al passare degli anni e ai rinnovamenti di organico. D’altronde il grande direttore è quello che, tra le altre cose, riesce anche ad incidere sulla pasta di un’orchestra, plasmandola secondo le proprie intenzioni. Ma Vladimir Jurowski non è solo questo: è un concertatore di livello assoluto – e la compattezza degli archi, la quadratura musicale o la calibratura degli equilibri interni stanno lì a dimostrarlo – ma è anche un direttore “da podio”. Ciò significa che unisce alla grande tecnica un carisma che rende ogni gesto, sia pure il cenno più minuscolo, musicalmente determinante.

Foto Luca d'Agostino
E se Lutoslawski e Szymanowski danno la misura del Jurowski virtuoso, cui non sfugge una semicroma o un attacco, con Debussy si ha la certezza che l’interprete non sia da meno.

Perché le sue Images sono innanzitutto molto personali nel suono, che pare nascere da una sintesi perfetta tra un gusto nord europeo per la trasparenza e un calore prettamente russo, che scalpita ed emerge per animare gli incisi più lirici e cantabili. E poi, oltre alla cura per il colore, c’è un’elettricità serpeggiante che va di pari passo con la flessibilità dell’agogica (come stiracchia leggermente quelle terzine che aprono la Sevillana!) e che viene ulteriormente alimentata da certe sferzate nette all’articolazione, soprattutto quella degli archi.

Per il Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone la Gustav Mahler Jugendorchester è ormai l’orchestra di casa – e c’è da sperare che lo rimanga il più a lungo possibile, intanto è ufficiale che sarà sempre essa ad inaugurare la prossima stagione, accanto a Gautier Capuçon – e pare persino stucchevole aggiungere elogi agli elogi già spesi. C’è però una cosa che continua a sorprendere, concerto dopo concerto, forse persino più della perfezione strumentale, ed è quell’entusiasmo che si trasforma in energia e quindi ancora in generosità verso il pubblico, quell’impressione di assistere a peripezie sul vuoto senza rete di protezione. Ecco, i ragazzi della Mahler non danno mai l’idea di suonare per mestiere, o di adagiarsi su una routine di altissimo livello, ma ci mettono sempre tutto quello che hanno. Osano, rischiano, si spingono fino al limite estremo delle proprie possibilità, eppure, a dispetto di tutto ciò, pare che non sbaglino mai una nota.

Che poi si tratti di professionisti di primissimo livello lo si capisce ancora una volta da come si mangiano la scrittura arroventata della Prima sinfonia di Lutoslawski, che scivola via fluida e compatta come fosse repertorio del più banale. E anche qui Jurowski è capace di lanciare certe fiammate impressionanti, dimostrando un dominio dell’orchestra totale e una concentrazione che non scende mai sotto il livello di guardia.

Resta da dire del Concerto per violino e orchestra n.1 op. 35 di Karol Szymanowski, che è da manuale, né più, né meno. Innanzitutto per la classe di Lisa Batiashvili, al debutto nel brano e sul palco del Verdi, poi per la straordinaria qualità dell’intesa tra direttore e solista, i quali non danno mai l’impressione di andare l’uno a rimorchio dell’altra. E che il direttore non abbia intenzione di fare il comprimario lo si capisce da subito, perché già l’attacco del concerto è cosa da artista di razza.

La Batiashvili è una grande musicista e una musicista moderna. Ed è tale per la pulizia del gusto, per il nitore del suono (bello ma contenuto, senza eccessi di vibrato o un inspessimento artificioso dell’ampiezza di cavata) ma soprattutto per la spontaneità che sa dare al discorso musicale. Cosa che le riesce grazie alla qualità del legato, che non viene meno neanche nei passaggi di maggiore virtuosismo, e alla precisione musicale, soprattutto ritmica. La quale pare tener conto di un concetto che Alfred Brendel – presente in sala per ritirare il Premio Pordenone Musica – ha spiegato al pubblico pordenonese la sera precedente, durante una sorta di lezione concerto condivisa con il giovane (e bravo!) pianista Filippo Gorini: la percezione della libertà ritmica che ha un musicista mentre suona non coincide necessariamente con l’aspettativa del pubblico. Ed è proprio così, siano esse scelte interpretative o espedienti per aggiustare la scrittura alle mani, certe libertà nel plasmare il tempo possono risultare stridenti o incomprensibili a chi ascolta. Ma questo rischio non riguarda la Batiashvili, il cui virtuosismo morbido e liquido è, appunto, perfettamente incardinato nel ritmo e da lì non sgarra, eppure talmente controllato e spontaneo da allontanare ogni spettro di meccanicità.

Dopo due ore abbondanti di musica, è trionfo per tutti.

Recensione pubblicata su OperaClick

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