È sufficiente il Concert Romanesc di György Ligeti per mettere in chiaro le cose: la Chamber Orchestra of Europe vale la sua fama. Tutto il virtuosismo strumentale che la scrittura sollecita ed esige non solo è facilissimo e fluente, ma si coniuga con una bellezza “calda” di suono persino sorprendente per un’orchestra cameristica (in fondo capita spesso che l’assottigliamento dell’organico si traduca in secchezza timbrica, non è questo il caso) e a una miriade di colori. E poi la qualità delle prime parti è superlativa, dalla spalla ai fiati tutti, così come la coesione d’insieme.
Insomma la COE è il classico ensemble che potrebbe suonare da solo, senza che nessuno se ne accorga o senta la mancanza di un manico. Però Antonio Pappano non è tipo da lasciare che un’orchestra vada per la sua strada, tutt’altro, è uno che sa dare la propria impronta, inconfondibile, sia in termini di concertazione che di interpretazione vera e propria. E se la prima è fondamentalmente questione di articolazione e dinamica – certi strappi e certi salti nel vuoto sono da brividi, sin dall’Andantino del Concert Romanesc – la seconda è innervata da una tale passionalità che sembra trascendere lo studio a tavolino. Evidentemente non è possibile che sia così, se non in minima misura: c’è una preparazione dietro, c’è un pensiero, però Pappano sa profondere una spontaneità al discorso che pare farlo sgorgare sul momento, come gli viene. E ciò è ancor più evidente nel Brahms del Concerto in re maggiore op. 77 che, a dispetto del ruolo (apparentemente) comprimariale affidato all’orchestra, è infiammato con una veemenza e da una fantasia che spalancano nuove prospettive sull’universo brahmsiano. E in un clima simile ci sta benissimo Veronika Eberle, il cui suono caldo e antico esce valorizzato dall’abbraccio appassionato dell’orchestra. È un violinismo, quello della Eberle, improntato a un’espressività lirica e cantabile che esalta l’anima romantica del concerto, pur senza estremizzarne i caratteri fin oltre i limiti della stucchevolezza. E poi, come ormai si dà per scontato, il controllo tecnico è ineccepibile, sia nel virtuosismo, sia semplicemente nel legato o nell’intonazione.
Anche nel Brahms giovanile della Serenata n. 1 in re maggiore op. 11 l’approccio di Pappano non cambia, quindi grande impeto e lirismo, un’attenzione ai fraseggi e allo sviluppo delle singole linee che scaccia ogni minaccia di monotonia, varietà ben marcata di approccio e intenzioni per ogni movimento. Il passaggio dal vitalismo dell’Allegro molto alla delicatezza intimista dell’Adagio, o quella più civettuola del Menuetto, non solo è sensibile, ma riesce a svolgersi con una naturalezza e una consequenzialità narrativa prodigiose.
Un’elettrizzante Overture da La Scala di Seta rossiniana congeda un pubblico festante. Trionfo.
Recensione pubblicata su OperaClick
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