15 luglio 2021

Riccardo Muti dirige Schubert

Com’è la Grande in do maggiore di Riccardo Muti? Lenta, molto lenta almeno per tre quarti della sua durata, solenne e severa, a tratti crepuscolare, a tratti quasi lugubre. Il suono è tanto e, manco a dirlo, tirato a lucido come ci si aspetta da un grande artigiano del podio, pur nell’imponenza dei volumi. Ma è soprattutto sapientemente concertata, sicché il pregio più caratterizzante, quello davvero balza all’orecchio, è la chiarezza costruttiva, l’intelligibilità dell’intelligenza creatrice in ogni sua diramazione. Anche all’apice della concitazione – perché questo Schubert è denso, sia nell’organico che nell’espressione sonora – ogni linea resta in vista, talvolta esposta con un pizzico di compiacimento. Però è una Grande senza umore. È suonata, celebrata a messa, venerata e presa tremendamente sul serio.


In un’intervista di qualche giorno fa, Muti affermava che la musica è rapimento anziché comprensione. È una posizione per certi versi condivisibile, la cui sincerità ben si comprende ascoltandolo all’opera. Perché in questo Schubert non c’è e non vuole assolutamente esserci un significato, un messaggio che trascenda la pregevolissima esecuzione strumentale.

L’obiezione è la seguente. La musica è sì indescrivibile a parole, ma per qualche oscura ragione può suggerire moti dell’animo condivisi tra chi li produce e chi li ascolta, siano essi di gioia, tristezza, estasi, ironia, paura, serenità e via andando.

Muti non sembra cercare, se non marginalmente, questa dimensione allusiva, ma persegue piuttosto una quadratura strumentale ostensiva il cui fine ultimo è il “Bello”. Bel suono, bell’equilibrio, belle proporzioni architettoniche. Pare esibirsi nella produzione e nell’ammirazione estatica di un manufatto che volta per volta viene scolpito nel marmo, a gloria dell’autore e, incidentalmente, per il piacere edonistico del pubblico. È uno Schubert insomma avulso dal tempo, che assomiglia molto a quello che si suonava ieri ma che probabilmente andrà bene anche domani o dopo. Uno Schubert poco problematico, che non svela niente di recondito, se non della sapienza orchestratrice del compositore.

Ciò detto, lo si ammira in silenzio, perché Muti conosce il mestiere. La concertazione è quadratissima, la direzione vera e propria inappuntabile e l’orchestra, la sua Cherubini, sa seguirlo al millimetro, mostrando anche una buona qualità complessiva, soprattutto tra i legni.

Una chiosa finale. È curioso che si celebri un anniversario di nozze escludendo uno dei festeggiati. Riccardo Muti debuttò sul podio dell’orchestra della Fenice cinquantun'anni fa, poi vi tornò per una manciata di appuntamenti, ultimo dei quali la riapertura del teatro dopo l’incendio. Il concerto di cui si racconta vorrebbe celebrare le nozze d’oro tra direttore e teatro veneziano. Però il teatro non è solo un edificio, ma un ecosistema di cui le maestranze sono il polmone. Forse avrebbero meritato di essere coinvolte nell’appuntamento, senza nulla togliere all’ottima Cherubini.

A fine concerto è trionfo personale per Muti, che sa ingraziarsi ulteriormente il pubblico con qualche battuta da consumato intrattenitore prima di salutarlo con una Sinfonia di Norma decisamente esuberante proposta come bis.

Nessun commento:

Posta un commento