21 novembre 2021

Un Fidelio grigiastro inaugura la stagione della Fenice

Difficile immaginare una concretezza più impalpabile di quella che Joan Anton Rechi favoleggia nelle note di sala presentando il Fidelio che inaugura la stagione operistica del Teatro La Fenice. D’altronde se fosse semplice passare dalla teoria alla pratica faremmo tutti i registi, no? Si parla di libertà, di amore coniugale, di una fantomatica ambientazione sivigliana, tutte cose buone e giuste che però sul palco si intravedono appena o che restano dietro le quinte. Non fosse per la cornice di Gabriel Insignares, che è la più classica delle scenografie aspecifiche buone per tutte le stagioni, e quindi per nove decimi di repertorio, si assisterebbe a un tradizionalissimo Fidelio, ordinario nell’impostazione quanto nella recitazione.

Il primo atto gravita intorno a una grossa testa di statua rotante che sul finale svela l’ingresso alle segrete, il secondo a una serie di elementi circolari concentrici che vorrebbero richiamare la struttura cunicolare delle segrete stesse. La semplicità delle scene sarebbe ininfluente se l’azione mostrasse qualche guizzo di ingegno o fantasia, invece si limita al classico campionario di gesti teatrali ormai entrati per abitudine e stanchezza in quel vocabolario della regia d’opera che sarebbe ora di archiviare definitivamente. Un paio di esempi per chiarire il punto: che Leonore si disveli levandosi il cappello è una soluzione tanto prevedibile quanto vecchia e risibile e lo sono forse ancor di più gli applausi al rallentatore mimati dal coro nel tripudio che chiude l’opera.

Purtroppo non c’è molto altro da dire, se non che i costumi di Sebastian Ellrich sono particolarmente brutti e che il disegno luci di Fabio Barettin non riesce a valorizzare un quadro complessivamente troppo povero.


Lo stesso Myung-Whun Chung, che nel teatro veneziano è stato protagonista di serate indimenticabili, pare più compassato che mai, quasi non riuscisse a trascinarsi dietro l’orchestra nelle sue solite alchimie timbriche e nelle modulazioni dinamiche, inspiegabilmente appiattite fin dalla Leonore III ficcata a inizio spettacolo al posto dell’ouverture canonizzata. Per quanto si apprezzi la scelta di sgrassare l’opera dalle sedimentazioni tardoromantiche, dai turgori e dalle lentezze esasperanti, in modo da ricondurla alle sue radici classiche, la direzione sembra arenarsi in un limbo di rinunce. Da un lato quella ad assecondare le tinte fosche e drammatiche dell’orchestrazione, d’altro canto non riesce nemmeno a collocarsi sull’estremo opposto della trasparenza analitica, o quantomeno della leggerezza cameristica, da cui la separa un’opacità di fondo del suono orchestrale.

Quanto al cast, c’è una protagonista, Tamara Wilson, che ha tutte le note della parte e un solido controllo tecnico, ed è già dir molto, ma che fatica a costruire un personaggio realmente credibile. Il Florestan di Ian Koziara è un clamoroso errore di distribuzione. Scritturare un tenore scuro, dal canto muscolare e “di gola”, per una parte che insiste sul passaggio è il classico disastro annunciato che puntualmente si concretizza nella scena che apre il second’atto, in cui Koziara finisce per sputare i polmoni.

Tilmann Rönnebeck è un Rocco bonario e corretto, mentre Oliver Zwarg risolve Pizzarro più di temperamento che “di canto”. È viceversa ottima la coppia dei giovani, formata da una Ekaterina Bakanova che si conferma musicista e attrice di gran classe e da Leonardo Cortellazzi, Jaquino dallo strumento spavaldo e squillante.

È positivo anche il contributo di Bongani Justice Kubheka, Don Fernando, mentre pare stranamente incolore la prova del coro preparato da Claudio Marino Moretti, cui si aggiungono i due prigionieri solisti Dionigi D’Ostuni e Antonio Casagrande.

Buon successo per tutta la compagnia a fine recita, con picchi di entusiasmo alle uscite di Tamara Wilson e del maestro Chung.

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