4 novembre 2021

Poschner e Skride aprono la stagione udinese

Scorrendo il programma di sala del concerto che ha aperto la venticinquesima stagione sinfonica del Giovanni da Udine, la curiosità cadeva sull’annuncio della nuova edizione critica della Quinta di Čajkovski a cura di Christoph Flamm, scelta che oltre a perseguire la massima fedeltà possibile alle intenzioni del compositore sottende una dichiarazione d'intenti: dare una sferzata alla sua storia esecutiva. Come? Riportando l'asse, che la tradizione ha spinto passo dopo passo verso la “monumentalità”, a un intimismo cameristico in cui l'espressione del dettaglio prevalga sull'impeto dell'insieme. Si potrebbe malignare che in tempi di distanziamento, con conseguenti sfoltimenti d'organico, la mossa sia strategica per giustificare qualche sfrondata alla massa orchestrale, non fosse che l'Orchestra della Svizzera Italiana schierata sul palco del teatro udinese è tutto fuorché sparuta. Il che dissipa ogni dubbio sulla genuinità delle intenzioni del maestro Markus Poschner, che trovano poi riscontro anche nella pratica stessa .

Non che il suo sia un Čajkovski “in piccolo”, anzi, è solo un po’ smagrito nel suono e ribilanciato a favore dei fiati, in modo che gli archi non si prendano la scena con quella tipica iper-espressività “cuore in mano” da tardoromanticismo russo. Quel che si ascolta è dunque una Sinfonia n. 5 in Mi minore op. 64 incalzante e analitica, dipanata su tempi tendenzialmente più svelti di quanto consolidato nella tradizione e asciugata di drammaticità e patetismo.

Che Poschner sia direttore incline alla sfumatura e alla concertazione in sottrazione lo si capisce sin dall’inizio di concerto, con Blumine, il brano apolide di Mahler rimasto senza casa dopo l’espunzione dalla stesura originale della Prima sinfonia, quando ancora aveva il proposito di essere un poema sinfonico.

Pare insomma il genere di maestro che riuscirebbe a condurre un porto qualsiasi nave. Fuor di metafora: dategli un'orchestra e saprà cavarne qualcosa di buono. Lo si evince dalla cura nella concertazione degli equilibri e soprattutto dei volumi, tenuti sempre verso il soffuso in favore di chiarezza. Il che a tratti eccede nell'estremo opposto, in un’attenzione alla singola cellula che va a inficiare il senso complessivo, o meglio, a rapsodizzare la scrittura in tanti piccoli frammenti che si avvicendano. È come se certe frasi iniziassero e morissero da sole, enucleate dal flusso musicale, un tratto che balza all’orecchio soprattutto in Čajkovski.

Nella prima parte di concerto Poschner accompagna Baiba Skride nel Concerto per violino di Korngold, offrendo un buon servizio alla solista, meno all’orchestrazione, che è forse il dato più interessante dell’opera per le sue peculiari alchimie, tant’è che si coglie anche qualche sbilanciamento nel dialogo con la violinista. Lei ha infatti gran tecnica e estrae dal suo Stradivari un suono di impagabile bellezza e omogeneità, e sa altresì evitare quel fraseggiare melenso che la scrittura facilmente sollecita, ma sconta una pecca comune agli strumenti di questa famiglia: la piccolezza del suono, che fatica terribilmente a superare l’ampia orchestra.

Calorosissimo successo per lei e, a fine concerto, per l’orchestra, che saluta con l’Ouverture dal Barbiere di Siviglia.

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