15 settembre 2021

Doppietta di Valerij Gergiev

Tra i maggiori beneficiari dei due concerti che Valerij Gergiev e “i suoi” del Mariinskij hanno dato al Giovanni da Udine ci siamo noi che abbiamo avuto la fortuna di ascoltarli entrambi, uno dopo l’altro. Non tanto perché ci è stato risparmiato il cruccio di scegliere a scatola chiusa tra una Grande che si è poi rivelata trascendentale e un’Italiana più ordinaria, ma per avere potuto ammirare a poche ore di distanza gli stessi musicisti nella stessa pagina: una breve suite del Romeo e Giulietta di Prokof’ev. Solamente quattro brani del balletto in realtà, che direttore e orchestra suonano insieme da decenni e conoscono a menadito, cosa che non li tenta nemmeno per un attimo di adagiarsi sulla comoda routine. Lo prova il fatto che tra la prima esecuzione - più limpida e per certi versi distesa, al punto che il durante le Maschere il direttore si trova a dare qualche gomitata mancina per ringalluzzire gli archi - e la seconda, incalzante e nervosa, le differenze non si contano: nei tempi, nel carattere, nei volumi. Gergiev non è insomma il tipo di direttore che attacca il pilota automatico e aspetta la fine, ma vive la pagina lì per lì, in preda a una sorta di enthousiasmós, o semplicemente abbandonandosi all’istinto.


Dello Schubert s’è già detto tutto con un solo aggettivo. Provando ad andare oltre la laconicità, c’è da raccontare di un’interpretazione sorprendente e imprevedibile, a tratti rivelatrice, che palpita dall’attacco agli accordi conclusivi. Certo alcuni potranno preferire un approccio più sobrio e analitico all’espressività brada di Gergiev, che pare trasformare l’Andante in una danza infernale che s’avvita su se stessa, con tanto di fiati che s’alzano in piedi sul finale di movimento ad aggredire a pieni polmoni le rispettive parti. Non è dunque uno Schubert pudico o “perbene”, quello di Gergiev, ma estremo, coloratissimo e delirante, a tratti in preda ai furori, a tratti straniante. 

Eppure il suo non è il radicalismo musicale di chi vuole stupire a tutti i costi o trovare nell’eccentricità la propria ragion d’essere, ma procede piuttosto assecondando un’urgenza narrativa che non perde coerenza nemmeno negli sviluppi più audaci: dal terzo movimento in avanti il susseguirsi di temi e intrecci è impastato con tale audacia da rasentare la trasfigurazione in una “Grande Symphonie fantastique”.

Confesso di non aver trovato altrettanto illuminante il Mendelssohn della Sinfonia n. 4 in la maggiore del concerto delle 21, l’Italiana appunto, forse troppo lontano dalla sensibilità del maestro, forse dalla mia. È sì suonato divinamente, e ci mancherebbe, pennellato a colori accesi che vanno ora addensandosi, ora sfumando, ma anche per certi versi rapsodico, quasi mancasse la reductio ad unum dei frammenti o la volontà di allontanare l’obiettivo dai tanti dettagli timbrici per catturarli in una visione allargata. Certo non difetta l’energia, anzi, il Saltarello pare una cavalcata a perdifiato nelle steppe, ma quale sia l’identità di questo Mendelssohn, oltre alla pregevolissima fattura, non saprei dirlo.

Meritano una menzione i due bis. Il primo concerto si chiude con un’Ouverture dal Pipistrello di Strauss tra le più folli che si siano mai ascoltate, una corsa danzante che va stringendosi con tale forsennatezza da suscitare l’ilarità stupita dei violinisti stessi e l’esplosione, si potrebbe dire programmata, del pubblico. A Mendelssohn invece fa seguito un finale dell’Uccello di fuoco da togliere il fiato. Basti questo dettaglio: nel passaggio dalla Berceuse alla chiusa vera e propria il suono orchestrale si fa talmente piccolo e immobile che sembra arrivare da qualche angolo remoto del teatro, come l’orchestra lo stesse mimando in playback sopra un’omologa nascosta dietro le quinte. Prodigioso.

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