Era l’evento più atteso della stagione e non ha deluso le aspettative. Il debutto di Marina Rebeka nella parte monstre di Norma va ben oltre il trionfo che il pubblico del Verdi di Trieste, solitamente tiepido e compassato, le ha tributato. Va oltre perché questa Norma non si ferma alla stupefacente bellezza del canto – bellezza che, beninteso, c’è e che in fondo è lecito aspettarsi da una cantante di tale prestigio – ma assume i tratti della grande incarnazione. Ne sarà lieto Peter Gelb, boss del Metropolitan, che l’ha chiamata ad inaugurare la stagione 2017.
La Rebeka ha innanzitutto le qualità tecniche necessarie per venire a capo di una parte tanto insidiosa e complessa (legato, volume, agilità, varietà d’accenti, temperamento, musicalità, morbidezza dell’emissione) e, merce preziosa, la capacità di servirsene per dar vita a un personaggio compiuto. Ciò che sorprende, trattandosi appunto di un debutto assoluto, è l’estrema quadratura psicologica di questa Norma, l’ampio ventaglio degli affetti e la capacità di risolverli nel canto. Sin dall’entrata ogni frase è perfettamente dominata, non c’è passaggio che sembri mettere in difficoltà il soprano: i recitativi hanno la necessaria espressività e ricchezza di colori, i momenti di maggiore slancio melodico sono restituiti nel pieno rispetto della purezza della linea. Allo stesso modo lasciano il segno gli sfoghi che sollecitano la corda della drammaticità (impressionante il “Guerra, strage, sterminio!”).
Senz’altro c’è qualche dettaglio da limare, o meglio si avverte la necessità di imprimere una caratterizzazione più personale a una Norma che per ora ricalca dei modelli abbastanza convenzionali, sfumature che la frequentazione e l’esperienza porteranno a maturazione.
Gli altri interpreti in campo non sfigurano accanto a una simile protagonista. Anna Goryachova è un’Adalgisa assolutamente convincente per precisione del canto, pertinenza dello stile ed espressività. In crescendo la prova di Sergio Escobar, Pollione, che dopo un primo atto non indimenticabile conclude con sicurezza la recita.
Andrea Comelli ha bella voce e un’apprezzabile consapevolezza tecnica e stilistica ma, a tratti, dà l’impressione che i panni di Oroveso gli calzino abbondanti.
Motoharu Takei è un Flavio squillante, Namiko Chishi una discreta Clotilde.
Fabrizio Maria Carminati ha molti meriti, non ultimo quello di restituire un’esecuzione pressoché integrale del capolavoro belliniano, con tanto di cabalette riprese e variate. Il direttore dimostra di conoscere alla perfezione l’opera e il repertorio belcantistico, sa sostenere il palco con estrema dovizia e risolve con mestiere l’arco narrativo dell’opera. Si conferma ancora una volta affidabilissima l’orchestra di casa.
Assai bene si comporta anche il Coro del Verdi preparato da Fulvio Fogliazza.
Lo spettacolo, già noto al pubblico triestino, è firmato da Federico Tiezzi (scene di Pier Paolo Bisleri). Se l’impianto, di chiara ispirazione neoclassica, è a rischio di immobilismo e staticità, merita una lode il bravo Oscar Cecchi, cui era affidata la ripresa, che riesce a trovare la giusta misura nel disegnare una recitazione efficace e ben inserita nel contesto.
L’accoglienza del pubblico è trionfale sin dal Casta diva, con entusiastici applausi a scena aperta che in più d’una occasione spezzano la recita. Teatro in delirio a fine serata, come non accadeva da tempo immemorabile, con interminabili ovazioni per Rebeka e colleghi.
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