“Signor Gershwin, la musica è musica”. Così parlò Alban Berg che come molti ammirava profondamente il compositore americano e che godeva, forse più di ogni altro, di una sincera stima reciproca. Non deve sorprendere il fatto che uno dei padri della dodecafonia, tra i massimi esponenti della seconda scuola di Vienna, mostrasse posizioni tanto benigne verso un linguaggio senz’altro distante dal proprio ma al quale era accomunato dall’urgenza di esplorare nuovi orizzonti, sia pure in direzioni differenti.
Gershwin, tornato a New York dall’Europa, fece incorniciare una foto di Berg che appese a una parete di casa accanto a quella di Jack Dempsey, pugile campione dei pesi massimi tra il 1919 e il ‘26, e a un sacco da boxe. Non solo, quando il compositore statunitense si diede al teatro con Porgy and Bess aveva ben chiara in testa la lezione dell’austriaco, in particolare il suo Wozzeck cui dedicò più di un riferimento.
Inutile dire che Berg vide lontano, ma non fu il solo. La prima di Rhapsody in blue alla Aeolian Hall di New York nel 1924 si guadagnò un consenso pressoché unanime – in sala erano presenti personalità del calibro di Stokowski e Rachmaninov, entusiasti – e non meno calorosa fu l’accoglienza nel Vecchio Mondo, ove i vari Stravinskij, Ravel, Schoenberg e, appunto, Berg, salutarono con favore questa musica nuova.
Al di là dell’approvazione, sia pur autorevolissima, dei suoi contemporanei, l’importanza dell’opera di Gershwin va riconosciuta anche per l’influenza che ha avuto sulla scuola compositiva americana, ma non solo, del XX secolo. Tra gli epigoni, benché con alterna costanza e convinzione, ci fu anche Leonard Bernstein che pur non risparmiando qualche critica al lavoro del suo ingombrante predecessore ne fu un autorevole interprete.
Pertanto abbinare in un unico programma le produzioni più note di questi due musicisti non può che rivelarsi una scelta vincente, sia per le relazioni storiche, sia per le palesi affinità di linguaggio.
Quella che potrebbe essere fraintesa come musica semplice, tanto per l’immediatezza e la spontaneità comunicativa quanto per il suo affondare le radici anche nei generi più popolari (si tratti di jazz, swing, o le Song di inizio Novecento), è in realtà una materia estremamente complessa da maneggiare e insidiosa, sia tecnicamente, sia per le peculiarità stilistiche che richiede all’esecutore.
Non solo, questa è musica in cui, per riuscire convincenti, bisogna credere profondamente. E Wayne Marshall ci crede con tutto se stesso. Anche per tale ragione il concerto che l’ha visto protagonista, nella doppia veste di pianista e direttore sul podio dell’Orchestra Filarmonica della Fenice, è esitato in un successo clamoroso.
Nella Rhapsody in blue Marshall ci mette molto di suo, omaggiando proprio la prima esecuzione del ‘24 con un Gershwin in veste di pianista facile all’improvvisazione. Non di meno riesce a trovare un pregevolissimo equilibrio dinamico tra il pianoforte solista e l’orchestra, ben sapendo che, come ci sono passaggi in cui il solista ha il dovere di emergere con forza, in altri dev’essere capace di farsi gregario e calarsi tra gli orchestrali, quasi confondendovisi. Se il calore del tocco e la plasticità dei tempi rivelano la perfetta consuetudine con le specifiche del jazz (il segreto del ritmo sta nel ritardo, diceva qualcuno, e in questo repertorio sembra più vero che altrove), mai c’è la concessione a un manierismo o ad effetti a buon mercato, anche quando Marshall si concede certi rallentandi tiratissimi. Dall’orchestra, che è solida spalla per tenuta ritmica e qualità di suono, emergono le ottime parti prime, in particolare l’eccellente il clarinetto di Vincenzo Paci.
Nel poema sinfonico An American in Paris, pur passando dal pianoforte al podio, l’approccio di Marshall rimane il medesimo: estrema vivacità, attenzione ai colori e agli impasti, il tutto unito ad una pregevolissima mutevolezza di dinamiche. Gli scarti ritmici sono netti, gli interventi dei singoli ben esposti ma soprattutto, al di là del grande mestiere nel tenere insieme il tutto, ci sono una vitalità e una gioia di suonare che rapiscono il pubblico.
Oltre a Gershwin, si diceva, c’è spazio anche per Leonard Bernstein e le sue Symphonic Dances, una selezione di danze estrapolate dal musical West Side Story, appositamente riorchestrate dal compositore stesso per una grande compagine sinfonica.
Dopo un Prologo piuttosto guardingo, Marshall si scatena e infiamma con un entusiasmo travolgente quell’orgiastica fusione di ritmi e colori che sono le Danze sinfoniche, in uno sviluppo sempre serrato, quasi burrascoso. Pur mantenendo invariate la tensione e l’energia per l’intera durata del lavoro, e concedendosi qualche sonorità di sfacciata esuberanza, tutto è sempre sotto controllo, gli attacchi puliti e precisi, i suoni ben amalgamati anche quando il volume è consistente. Qualche nota sporca qua e là, qualcuna sollecitata, qualcun’altra che ci scappa per sbaglio, non fanno che accrescere il fascino jazzistico della lettura. Ovviamente se ogni cosa riesce con tanta facilità i meriti principali sono dell’orchestra che, anche in un repertorio così distante dalle frequentazioni più abituali, si comporta alla perfezione.
Se non sorprendono la pulizia e il bel colore degli archi, che ormai sono una piacevolissima costante della Filarmonica della Fenice, lasciano di stucco le eccellenti percussioni, vera spina dorsale delle Danze Sinfoniche. Senza far torto ai colleghi di sezione, merita un elogio la splendida prova di Dimitri Fiorin, giustamente acclamato dal pubblico.
I legni e gli ottoni, sollecitatissimi, non sono da meno e concorrono all’ottima riuscita dell’esecuzione, dimostrandosi duttili nell’assecondare la peculiare tavolozza timbrica della scrittura, qualità che emerge forse ancor più nettamente in Gershwin.
Sulla stessa, entusiasmante linea l’infuocata Ouverture da Candide dello stesso Bernstein.
Biglietti esauriti, trionfo sacrosanto e pubblico in delirio. Dopo un primo bis (Promenade di Gershwin, in cui Marshall dà l’attacco e si defila lasciando i Filarmonici soli sul palco), direttore e orchestra si devono arrendere all’entusiasmo del teatro e replicare a furor di popolo l’Ouverture di Candide, prima di congedarsi tra gli applausi.
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