Torna alla Fenice l’ormai storica Traviata di Robert Carsen, appuntamento fisso delle stagioni del teatro veneziano. Circa lo spettacolo ci sentiamo di ribadire le impressioni che ricavammo per le recite dell’anno passato:
“Allestimento suggestivo, intenso, commovente. Carsen ha il grande merito di saper rendere in modo pienamente convincente il particolarissimo strabismo del personaggio che se da un lato cerca la redenzione da un passato compromettente nell’amore e nella fuga (senza riuscirci), dall’altro subisce il progressivo rigetto da parte di quella società borghese che pur è parte di lei, finendo per perdere l’una e l’altra cosa. C’è il denaro onnipresente a ricordarci continuamente quale sia la professione di Violetta, denaro che diventa l’unico strumento di comunicazione tra le persone, solo parametro di valutazione del valore di rapporti e relazioni.
L’ambientazione è contemporanea per parlare ai contemporanei, come Verdi avrebbe voluto – almeno questo è quanto sostiene il regista canadese. Il primo atto ha i tratti di un party dalla mondanità quasi hollywoodiana con la vacuità della borghesia in trionfo. Davvero di rado “il popoloso deserto che appellano Parigi” è parso tanto popoloso e tanto deserto assieme, fatuo ed effimero come i valori di quella stessa società. L’ambientazione della prima parte del secondo atto riproduce una foresta che non è difficile leggere come simbolo della purezza cui Violetta aspirerebbe. I soldi che piovono dal cielo, in luogo delle foglie secche, ci ricordano che l’agognata redenzione è destinata a restare soltanto una speranza. La festa successiva si sviluppa tra i tavoli di un nightclub in mezzo a giochi d’azzardo, prostitute e lap dance. Nel terzo atto si torna a casa di Violetta. Non c’è più lo sfarzo di un tempo, il salone è spoglio, la tappezzeria stracciata. La ricchezza volgarmente esibita, straripante del primo atto lascia posto ad una povertà decadente. Violetta muore sul pavimento tra le braccia di Alfredo mentre attorno il mondo continua ad andare avanti col suo ritmo forsennato. Annina scappa con la pelliccia della padrona e la casa viene invasa dagli operai al lavoro per il nuovo proprietario. Popoloso deserto appunto.”
Ekaterina Bakanova lasciava ottime impressioni nei panni della protagonista. Il soprano affrontava la parte con gusto e personalità, esibendo una vocalità di bel colore e buon volume, ben modellata in un canto intenso e partecipe. Sorprendevano la maturità interpretativa e la capacità del soprano di risolvere la complessità del personaggio, la ricchezza di sfumature vocali e psicologiche, la perfetta sinergia tra canto e recitazione. Alcune tensioni e imperfezioni nel registro acuto, soprattutto nella cabaletta del primo atto, toglievano davvero poco a una prova maiuscola e incoraggiante per il futuro.
Piero Pretti era un Alfredo Germont corretto vocalmente e disinvolto sulla scena. Dimitri Platanias, a dispetto di una voce importante, non trovava la giusta inquadratura per Giorgio Germont non riuscendo a risolvere il canto con la morbidezza e il legato necessari a valorizzare musicalmente ed espressivamente la parte.
Diego Matheuz, insieme alle virtù che siamo abituati a riconoscergli, dimostrava di aver ulteriormente perfezionato, rispetto alle prove precedenti, la confidenza con l’opera, soprattutto per quanto riguarda il rapporto col palcoscenico. Restavano invariati il nitore del suono e la precisione orchestrale mentre pareva decisamente migliorata la capacità di sostenere i cantanti e seguire l’azione. Il maestro venezuelano offriva una lettura asciutta, tagliente, a tratti persino violenta e per questo perfettamente aderente all’allestimento di Carsen.
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