29 marzo 2015

Francesco Piemontesi in recital al Giovanni da Udine

Ascoltando la Kreisleriana (Otto fantasie per pianoforte, op. 16) di Robert Schumann mi chiedevo quale debba essere l'approccio di un musicista ad un simile lavoro, se sia più giusto leggerla alla propria maniera o cercare nella pagina un autoritratto del compositore. È noto che Schumann sentisse molto vicino quel Johannes Kreisler, geniale e pazzoide musicista creato dalla fantasia di E.T.A. Hoffmann, che ispira il lavoro; egli stesso ebbe modo di ribadirlo in più d'un occasione. Non solo, la dedica ufficiale all'amico Chopin e quella ufficiosa a Clara rendono ancor più stretta la vicinanza dell'opera all'intimità di Schumann, senza considerare che, a posteriori, non mancano analogie tra il carattere “bipolare” della Kreisleriana ed il fragile equilibrio psichico che segnò la vita del musicista.

Credo che un interprete, scegliendo di confrontarsi con un tale pilastro della letteratura pianistica, sia tenuto a porsi simili interrogativi, magari trovando risposte radicalmente distanti o discutibili negli esiti, ma comunque meditate.

Quello che Francesco Piemontesi, pianista svizzero poco più che trentenne, ha offerto al suo esordio sul palco del Teatro Nuovo Giovanni da Udine, è stato un buon esercizio di calligrafia pianistica fine a se stessa. Un suono pulito e levigato al servizio di un'unica idea stilistica e di poche idee interpretative. Schumann suonato allo stesso modo di Beethoven, Beethoven come Mendelssohn che a sua volta poco si distingueva da Scarlatti.

Piemontesi si dimostrava in possesso di ottima tecnica per quanto riguarda la pulizia del suono, fluidità e morbidezza del tocco e di notevole precisione ritmica, ma interprete ancora acerbo, massimamente in Schumann e Beethoven. Le dinamiche, pur cesellate con intelligenza, non trovavano il giusto sfogo nei forti né i pianissimi brillavano per delicatezza, la gamma di colori risultava stringatissima. Il fraseggio inamidato ed un'eccessiva prudenza nella caratterizzazione delle frasi toglievano molto ai brani in programma.

In fin dei conti la parte più convincente è stata quella iniziale: Scarlatti, risolto sostanzialmente come esercizio di forma, razionale e geometrico ma piacevole, e Mendelssohn i cui Lieder senza parole trovavano qualche ragione d'interesse nell'esecuzione sobria e cameristica di Piemontesi. La Sonata 31 di Beethoven naufragava in un adagio staccato con una lentezza che il pianista non ha saputo reggere, di Schumann si è già accennato: gli otto pezzi omogeneizzati nel carattere e nei colori perdevano di significato e forza.

Cortese ma tiepida l'accoglienza del pubblico udinese.

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