2 ottobre 2019

Written on skin

L'adagio canonizzato da Bernard Shaw secondo cui l'opera lirica sarebbe quella rappresentazione in cui il tenore cerca di portarsi a letto il soprano, ma c'è sempre un baritono che glielo vuole impedire, è vecchio come il mondo ma regge ancora. Che poi ci sia un libro nel mezzo a fare da casus belli è un topos altrettanto frusto, che da Ginevra e Lancillotto va avanti in un vero e proprio filone di letteratura (operistica) sulla letteratura galeotta.

Written on skin di George Benjamin, lavoro che sulla scala dei tempi operistici sta più o meno all'altro ieri (la prima assoluta è ad Aix-en-Provence nel 2012), parte da lì, ma c'è molto di più. Benjamin e il suo ottimo librettista Martin Crimp raccontano di Guillem de Cabestany, trovatore spagnolo le cui vicissitudini sono avvolte nella leggenda.

Convocato da un ricco Protettore, "uomo ossessionato dalla purezza e dalla violenza", per redigere un libro agiografico atto a celebrare le imprese proprie e della propria stirpe, il trovatore (the Boy, nell'opera), finisce per trescare con la di lui moglie Agnès. Quando il Protettore lo scopre ammazza il ragazzo e costringe la moglie a mangiarne il cuore, cosa che a lei non dispiacerà nemmeno troppo: "niente che io mangi o beva potrà togliere il sapore del ragazzo da questo corpo", gli dice, e lui le si scaglia addosso per ammazzarla. Lei lo anticipa lanciandosi dal balcone.

Tutto ciò raccontato nei versi meravigliosi di Crimp appunto, che mescolano alla presa diretta alcuni commenti narrativi di un trio d'angeli contemporanei che, per portarci nel cuore della storia, vanno indietro di otto secoli, facendoci scoprire appunto ciò che è Written on skin, scritto sulla pelle. Sì perché scrivere sulla pelle, cioè miniare la pergamena, è il mestiere del Ragazzo, ma è quello che finisce per fare anche con Agnès, entrandole nell'epidermide come la scabbia. Lei con lui scopre l'amore negatole da un marito forse impotente, forse omosessuale, di certo brutale e maschilista che la considera una proprietà da amministrare al capriccio.

L'occasione per riascoltare l'opera di George Benjamin in Italia, purtroppo senza vederla in scena, la offre la biennale di Venezia, che celebra il compositore con il Leone d'oro alla carriera. La si accoglie in forma di conceto dunque, sull'angusto palco del Goldoni - forse troppo angusto per l'opera in generale, transeat - con l'Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI e i cinque solisti schierati in uno stralcio di proscenio.



Alle loro spalle Clemens Schuldt concerta nel migliore dei modi, cioè raccontando senza farsi notare. In realtà l'orchestra si nota solo quando sul finale si ribalta un leggio, aggiungendo un curioso effetto alla linea delle percussioni, ma non certo perché non renda giustizia alla scrittura di Benjamin che anzi, erompe in tutta la sua vena teatrale. Certo non suona straniante o nuova come altra musica d'oggi, anzi, sembra guardare indietro. Ma è un occhio restrospettivo da musicista sapiente e grande affabulatore. E Schuldt appunto, tiene tutto in pugno senza perdersi niente, ad eccezione della bacchetta che a un certo punto gli vola via. Poteva starci un briciolo di coraggio in più nelle dinamiche? Forse sì, inezie.

Della compagnia originale rimane Christopher Purves, che è letteralmente un diavolo. Non basta un leggio ad arginare la sua dirompenza teatrale, che sguscia fuori da ogni sillaba, da ogni occhiata. Il canto è talmente brado e violento da entrare davvero sotto la pelle, è sporco e spesso si spezza nelle mezzevoci o scivola un po' in basso nell'intonazione, eppure ogni sfumatura che nasce da questa brutalità d'emissione arricchisce un'interpretazione che è una vera e propria personificazione.

James Hall è un ragazzo da oratorio, molto perbene e pulito sia nel canto che nella figura, ma con carisma ancora in fase di costruzione. Arriverà anche quello ed avremo un eccellente controtenore in più.

Brava Georgia Jarman, Agnès, primo perché canta bene tutto quello che c'è da cantare, con voce un po' acidula in alto ma complessivamente gradevole, secondo perché ci crede fino in fondo e tiene testa a quell'animale da palcoscenico che le sta accanto.

Gli altri due angeli, che si prendono anche le parti dei cognati, sono Victoria Simmonds e Robert Murray. Lei occhio svelto e voce morbida, lui canta magnificamente e ancora meglio sa rendere la patetica debolezza da uomo omega del suo personaggio.

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