Alla fine si ha l’impressione che Pier Paolo Pasolini venga tirato per la giacchetta con la scusa – nobilissima, beninteso – di celebrarne il ricordo. Intendiamoci, il progetto che il Teatro Giuseppe Verdi di Pordenone porta avanti da almeno tre anni è sacrosanto e merita tutti gli applausi del mondo, però nel caso specifico l’esito è quantomeno alterno.
Ma andiamo per gradi. Nei primi anni settanta Pasolini pensò a una trasposizione cinematografica dell’Histoire du Soldat, favola che Stravinskij e Ramuz trassero da Afanasiev. La storia va in parallelo a quella dei tanti Faust o Tom Rakewell che vendono l’anima al diavolo e finiscono malissimo: il soldato, che nel caso specifico si chiama Giuseppe, baratta il suo violino con le arti magiche del demonio. Inutile dire che alla fine a guadagnarci è il secondo.
Quale occasione migliore del centenario dalla prima (1918) combinato con l’anniversario della scomparsa dell’intellettuale friulano per mettere in scena una versione del lavoro di Stravinskij ibridata con gli appunti di PPP? Il Verdi ci ha pensato e l’ha fatto, almeno sulla carta, con tutti i crismi del caso, producendo uno spettacolo nuovo di zecca.
Il progetto parte da lontano e contempla anche un libro di Roberto Calabretto, di fresco dato fuori (L’Histoire du soldat, Edizioni ETS, 2018). Qual è dunque il problema? Che alla prova dei fatti, cioè del palcoscenico, di Pasolini in questa riscrittura non resta molto. L’adattamento che Gianni Farina fa del testo, proprio alla luce degli appunti di cui sopra, è debole nell’incisività di versi e drammaturgia ma soprattutto dà l’impressione di essere distante dalla poetica del modello. Certo ci sono alcuni riferimenti ai luoghi, ai film, alla critica sociale, alla sua estetica, ma non basta. Come sempre, quando si parla di arte, c’è un fossato che separa la teoria dalla pratica da scavalcare.
Lo stesso Farina cura la regia. La trama procede attraverso la narrazione non efficacissima di Consuelo Battiston e una serie di videoproiezioni (di Davide Maldi e Micol Rubini) che guarda al cinema pasoliniano e a quello muto – il mio vicino di seduta ha generosamente pensato a Dreyer – senza replicarne la forza dirompente.
Tra gli attori convince più il demonio disturbante di Roberto Pagura, un diavolaccio brutto e sudicio che a un certo punto irrompe in platea, che il soldato di Giacomo Pontremoli che è introverso e anti(em)patico ai limiti dell’inettitudine probabilmente per scelta, ma che in quanto tale non muta di un millimetro in corso d’opera. Michela Facca dà corpo alla Principessa e lo fa con certa mestizia alienata, quella sì vagamente pasoliniana.
Nelle proiezioni si intravede un alone di neorealismo che tuttavia non è emancipato dal modello con personalità sufficiente da dargli una connotazione pienamente convincente per la sensibilità odierna, anzi, a tratti sembra quasi riprenderlo facendogli il verso.
Fatta la tara dei limiti, lo spettacolo ha dalla sua un buon ritmo, e la brevità in ciò lo aiuta, resta però la sensazione dell’occasione buttata.
Il senso di incompiutezza del versante prosaico è parzialmente compensato dalla buona esecuzione musicale. Fabio Sperandio adempie a quello che dev’essere il compito principale di un direttore in questi casi: racconta una storia e lo fa senza trascurare le ragioni della musica. Incalza, colora e tiene quel po’ di palco che c’è senza esitazioni. Insomma si apprezza una vera regia musicale che tappa le falle di quella teatrale.
I musicisti dell’Ensemble Zipangu lo seguono bene, con duttilità, qualità e limitando al minimo le sbavature.
Applausi convinti ma sbrigativi.
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