Foto Michele Crosera |
E qui arriva il primo problema per Damiano Michieletto, regista del Macbeth che apre la stagione del Teatro La Fenice: quando si decide di ribaltare la drammaturgia di un'opera bisogna fare i conti con tutto quello che l'autore avrebbe previsto. Michieletto non si dimentica della trama, né la caccia sotto a un tappeto come si fa con la polvere, anzi, la porta avanti con coerenza quasi da tradizionalista, e l'effetto è straniante. Per i primi tre atti non si capisce da che parte guardi lo spettacolo e soprattutto dove voglia portare: sembra di assistere a due Macbeth cuciti insieme senza troppe ragioni per farlo, come in una sorta di macabra Arianna a Nasso. La drammaturgia si sdoppia in due rivoli che corrono separati, affiorando a fasi alterne o, di tanto in tanto, nello stesso momento, a cortocircuitare. Da una parte c'è la scalata al potere, un potere più astratto che immediatamente definibile, che pare avere qualcosa a che fare con l'affermazione di un ruolo nella società (c’è sì una corona che è un simbolone grande così, ma gli abiti di Carla Teti sono da 2018), dall'altra il dramma psicologico della coppia, che dalla stessa società va via via alienandosi. E chi è che inasprisce i tormenti di Macbeth e Signora, rigirando il coltello nella piaga? Ovviamente sono i bambini, quelli degli altri. I figli che loro non hanno più allargano il compasso che li separa dalla realtà, ogni pargoletto è un giro di vite. Questa frattura avviene a colpi di omicidi, che non paiono nemmeno tali, ma assomigliano piuttosto alla cancellazione, alla repulsione o alla dimenticanza. Il sangue dei morti è una crema che sa di bianchetto, i cadaveri vengono ingoiati da enormi teli di plastica (che sono, di fatto, il solo elemento costitutivo delle scene) quasi svanissero nella nebbia dell’oblio. La manomissione della drammaturgia non è che un pretesto per spostare la prospettiva sulla vicenda, che non è più esterna ma è quella dei due protagonisti. Quello che Michieletto vuole raccontare è il mondo visto con gli occhi dei Macbeth, che diventa sempre più indistinguibile, offuscato e infine delirante.
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I conti tornano proprio nell'ultimo atto, quando la frattura psicotica tra i coniugi e la realtà è ormai insanabile. Lei si perde in una foresta di altalene – Birnam, geniale! – lui trova la pace estrema per mano del solo che può capirlo, Macduff, quell’altro che ha subito un lutto paragonabile.
Al netto del lavoro sulla drammaturgia, che è incisivo e affascinante, ma che per convincere del tutto richiederebbe un briciolo di virtuosismo in più in certi passaggi non completamente risolti, resta il lavoro di regia vero e proprio, che Michieletto sa fare da padreterno. I solisti recitano tutti e tutti dal bene al benissimo, le masse sono manovrate plasticamente e sulla musica senza un’esitazione (anche per merito dei movimenti coreografici curati da Chiara Vecchi). Le luci di Fabio Barettin sono provvidenziali nel sostenere il racconto, esaltando l’azione e donando mutevolezza a un palco per lo più spoglio e gelido nelle tinte.
Paolo Fantin infatti, che ci ha abituati a scenografie colossali, in questo Macbeth sembra volersi defilare per lasciare il pallino del gioco tutto nelle mani del regista. Sul palco non c’è quasi niente: due pareti laterali di lampade al neon e una serie di sipari scorrevoli in plastica che dal fondo avanzano verso la platea. Nella seconda parte un sacco gigante di nylon bianco scende dal cielo e con esso qualche altalena, altro simbolo didascalico ma efficace. Ne nasce una sorta di limbo, un non luogo confuso tra realtà e allucinazioni, popolato da spettri del passato (le streghe e i figli morti), aloni del circostante e ricordi, tanti e dolorosi.
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Myung-Whun Chung è al suo debutto nel Macbeth e la cosa impressionante è che a tratti si ha la sensazione di ascoltare l'opera stessa per la prima volta. Mai gli anfratti sepolcrali della partitura, i gemiti, le ombre più inquietanti e i sussulti di terrore erano parsi tanto nitidi. Un Macbeth a tinte cupe se non cupissime, dalla drammaticità sconquassante, che sembra davvero inghiottire nelle fauci dell’inferno. L’orchestra bisbiglia malignamente – Duncano sarà qui? e sotto gli archi sogghignano – deflagra in esplosioni atomiche all'apparizione di Banco, sospira di muto dolore nel coro del quarto atto (un funerale di bambini) e regge sempre il canto, respirando con esso.
I professori della Fenice sono in forma strepitosa e danno il meglio di sé, soprattutto per qualità timbrica e plasticità delle dinamiche.
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Luca Salsi è il titolare più accreditato della parte di Macbeth dei giorni nostri. La voce è brunita e "grassa" e si apre in un ventaglio dinamico che va dal pianissimo più leggero e sostenuto al forte più tonante, i fiati sono da cronometro, il volume ragguardevole. L’interprete è poi estremamente rifinito nell’accento e nello scavo della parola scenica, anche a costo di spingersi a marcare con veemenza talune intenzioni. A voler spaccare il capello in quattro, c'è qualche slittamento dell'intonazione qua e là, soprattutto nel declamato più esposto, che non di rado riesce leggermente parlicchiato.
Molto bene Vittoria Yeo, che è subentrata alla prevista Tatiana Serjan appena prima dell'antegenerale. La voce è piccola, almeno lo è in rapporto alla tradizione esecutiva della parte, ma le note ci sono tutte e, soprattutto, c'è un personaggio completo. Il canto è pulito ed espressivo, le agilità sono buone, il timbro non particolarmente accattivante ma omogeneo e naturale (seppur la voce sia leggerina, la Yeo non la camuffa né gonfia). Bellissima sul palco nei suoi abiti da upper class, la Lady della Yeo è una giovane donna cui la vita ha scombinato i progetti, togliendole dalle mani tutto quello che avrebbe dato per scontato.
Simon Lim, Banco, è al solito affidabile per ampiezza e solidità del canto. È assai rodato il Macduff di Stefano Secco che, pur con qualche durezza e trucchetto – d’altronde l’aria arriva quasi a freddo – cesella e fraseggia con varietà e incisività la Paterna mano ed è sempre puntuale e convincente nei suoi interventi.
Completano onorevolmente il cast Marcello Nardis (Malcom), il sempre corretto Armando Gabba, più psichiatra che medico in senso classico, Antonio Casagrande ed Elisabetta Martorana (rispettivamente domestico e dama), Emanuele Pedrini (Sicario) e Umberto Imbrenda, Araldo.
Delle tre apparizioni dei Piccoli Cantori Veneziani preparati da Diana D’Alessio ed Elena Rossi, almeno due sono molto buone.
In forma mondiale il coro diretto da Claudio Marino Moretti.
Alla fine accoglienza calorosissima per il cast, trionfale per Chung e alterna per regista e soci, sonoramente fischiati e buati da una fetta difficilmente quantificabile, ma minoritaria, del pubblico.
Recensione pubblicata su OperaClick
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