6 novembre 2018

Buona la seconda per il Requiem di Chung, peccato che io sia andato alla prima

Anche se manca un matrimonio formale, La Fenice e Myung-Whun Chung sono una coppia di fatto. L'inaugurazione di stagione è sua sul doppio fronte operistico e sinfonico, poi Capodanno, un paio di concerti e altre due produzioni teatrali. Bene, benissimo, visto che la relazione pare funzionare alla grande da diversi anni a questa parte.

D’altronde le doti stregonesche di affabulatore del suono del maestro coreano sono note e riescono sempre a cavare dall'orchestra una qualità che trascende la mera contemplazione edonistica del bello. Partendo dalle premesse di cui sopra la Messa da Requiem di Verdi parrebbe un puntello ideale per cementare il sodalizio, soprattutto se ci si ricorda l'intensità spirituale del suo ultimo Stabat Mater rossiniano.

Tutto a posto dunque? No. Perché l’arte non è scienza e non è sufficiente replicare le condizioni di partenza di un esperimento per ottenere il medesimo risultato. In musica per trovare la quadratura del cerchio bisogna provare, provare e riprovare finché non è abbastanza e, alla fine di questo Requiem, l'impressione è che orchestra e direttore di tempo insieme ultimamente ne abbiano passato poco.

Perché c'è sì il Chung-touch, quello che fa bisbigliare i contrabbassi come fossero suonati dallo sbuffo di una finestra lasciata aperta, c'è compattezza, c’è una concertazione molto attenta agli equilibri, ma ci sono anche troppi pasticci di struttura e di precisione. Se i violoncelli sbrodolano l'attacco dell’Offertorium non è certo per un loro limite intrinseco ma perché evidentemente quel passaggio non è stato rodato come si sarebbe dovuto. Lo stesso discorso vale per l'intonazione ballerina di archi e ottoni in taluni segmenti o per le sbavature del flauto, per certo imbolsimento dell'amalgama e per altri sgarri disseminati qua e là.

Per carità, l'esito non è affatto disastroso, anzi, è complessivamente molto buono, ma proprio perché la distanza che separa la pregevole esecuzione da quella grandiosa è questione di dettagli, l'amarezza raddoppia. E pretendere il meglio da un direttore di tal pasta non è un eccesso di severità.

Per il resto fila tutto più o meno liscio. Chung conosce il Requiem a menadito e lo sa pennellare con morbidezza di colori e dinamiche, riesce ad allargare il respiro senza ammorbare o buttarla sul misticismo, infiamma la corda della drammaticità con strappi che fanno vibrare il pavimento della Fenice e, fatto per nulla banale, sostiene il canto andandogli incontro e cullandolo. Le prime battute ad esempio sono magiche, dilatate allo spasimo ma rette con una tensione che le rende tutt’altro che estenuate, e ci sono molti altri passaggi che tolgono il fiato (il fugato finale del coro, bellissimo!). Però nel complesso si percepisce un sentore di incompiutezza, di un cammino che si è fermato a pochi passi dal traguardo. Tutto rimane lì, avvolto in un velo di prudenza, come un giocattolo imballato nel pluriball per evitare che si rompa.

Chi invece centra il bersaglio è il Coro di Claudio Marino Moretti. Sussurra, strepita, tuona, ruggisce, alita e sa piegarsi ad ogni altra suggestione espressiva senza perdere smalto o brillantezza. Meraviglioso.

Serata complicata per Maria Agresta. Difficile dire se per stanchezza o forma precaria, fatto sta che la voce risponde poco soprattutto in alto, dove ogni pianissimo è una roulette ed esce spesso fisso e calante. Ci sarebbe un’attenzione all’espressione da artista di razza, ci sarebbe il giusto legato, ci sarebbero tantissime buone intenzioni che però rimangono nove volte su dieci incompiute.

Veronica Simeoni ha un’ottava acuta svettante e luminosa sorretta da un’emissione morbida il giusto. Anche se scendendo manca un po’ di corpo, il mezzosoprano ha l’intelligenza di non pompare mai i suoni o di intaccare la linea: canta con la vocalità che gli appartiene, facendo della levigatezza il proprio punto di forza.

Antonio Poli si danna l’anima per risultare vario e incisivo: sfuma alla mezzavoce, colora e sa anche imporsi quando serve. La voce però tende a restare un po’ “indietro”, il che le conferisce una velatura che sacrifica qualcosa in termini di brillantezza e squillo; certo rispetto ai tempi andati il volume si è espanso notevolmente, soprattutto in basso.

Ottima la prova di Alex Esposito. È vero, di natura non gli appartengono l'ampiezza e la ricchezza della polpa nei gravi, ma poco importa; appena la tessitura sale il suo canto si espande sempre morbido e timbrato e la parola è dominata in ogni sillaba senza leziosaggini o sottolineature eccessive.

Buon successo a fine concerto con picchi di entusiasmo per Chung.

Nessun commento:

Posta un commento