Dalla burrascosa uscita di scena di Myung-Whun Chung, la Seoul Philharmonic Orchestra è ancora alla ricerca di un direttore musicale. Sono passati tre anni e chi ci è andato più vicino è Thierry Fischer, che dalla scorsa stagione è direttore ospite. Dopo una prima vita da strumentista di prestigio (tra le altre cose, flauto principale alla Chamber Orchestra of Europe con Abbado e a Zurigo negli anni di Harnoncourt) Fischer si è buttato sulla direzione a tempo pieno, con esiti di rilievo principalmente tra America e Asia. A guardarlo di spalle il suo gesto ha qualcosa di bernsteiniano – difficile credere che non tenga a modello il grande musicista americano – e in fondo il paradigma sembrerebbe essere quello anche nella maniera di infondere calore e di defibrillare l’orchestra. Orchestra che è spettacolare. La Seoul Philharmonic può davvero guardare in faccia le compagini più blasonate senza nascondersi, perché oltre ad essere tecnicamente la più classica delle grandi orchestre asiatiche, quindi suono strutturato alla perfezione con prodigioso bilanciamento di corpo e trasparenza, è un organismo d’anima tutt’altro che gelida. Se la qualità degli archi tutto sommato sorprende relativamente, essendo merce non così rara, è soprattutto la pasta di legni e ottoni colpire l’attenzione: intrinsecamente belli, affiatati nel fondersi l’uno con l’altro e morbidissimi.
E poi la SPO è orchestra che sa mutare in corso d’opera e di concerto. Già Muak di Isang Yun che apre la serata sollecita il virtuosismo dei filarmonici e del concertatore. Flessibilità e fluidità nel dialogo tra le sezioni, precisione totale, equilibri centellinati al bilancino. C’è un momento, più o meno verso la metà del brano, in cui le arcate di primi e secondi violini si sollevano in controtempo, quasi ad accentuare la sensazione di un moto ondoso che è già nella musica, con una plasticità danzante da corpo di ballo; eccola la grande orchestra! La scrittura (1978) mescola suggestioni orientali alla musica occidentale storicizzata piuttosto che alle avanguardie più audaci, insomma pensa a Stravinskij e al primo Novecento e probabilmente non inventa niente di nuovo, ma è piacevole e sicuramente assai ben concepita.
La Seoul Philharmonic Orchestra sa anche accompagnare, fatto tutt’altro che banale. Nel Concerto n. 5 op. 73 in mi bemolle maggiore “Imperatore” per pianoforte e orchestra di Beethoven, Fischer la trasforma in un cuscino soffice e delicato su cui il virtuosismo iperbolico di Sunwook Kim ha modo di distendersi con tutto l’agio possibile. Coreano anch’esso, Kim fonde in sé la disciplina orientale con una sensibilità internazionale. Mani robotiche, un controllo del suono e del ritmo prodigioso in ogni dinamica, purezza cristallina del tocco (e il Fazioli gran coda F278 gli dà manforte: che smalto!). Ci si potrebbe attendere una freddezza marmorea, se non accademica, da un tale musicista. Niente di più sbagliato. Sunwook Kim è sì una perfetta macchina da note, ma è anche interprete raffinato e misuratissimo che non soffre l’accostamento ad un titolo monstre del repertorio, anzi, riesce ad entrarvi infondendovi una freschezza di respiro e di gusto attualissima.
Nella Symphonie fantastique op.14 di Berlioz invece si fa largo Fischer. È impressionante come il direttore imprima da subito alla sinfonia una tensione trasfigurante, al punto che dopo il primo movimento ci si chiede come potrebbe evolvere o reggere fino alla fine una tale carica dionisiaca. Invece Fischer non si ferma e non rallenta, ma racconta. Pesca un Valse pastorale ma non privo di certa ironia, si ritrae in una Scena Campestre notturna e soffusa e poi scatena la tempesta negli ultimi due movimenti, che riescono più festanti che deliranti.
Sull’orchestra c’è poco da aggiungere. Un’iridescenza e una varietà dinamica che esaltano la scrittura berlioziana al massimo grado.
Grande successo per tutti, meritatissimo.
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