Che Michele Mariotti abbia personalità e talento da vendere è la scoperta dell’acqua calda. Però limitarsi a questo, per un musicista che all’alba dei quaranta può già guardarsi indietro e dire di avere fatto qualcosa di importante, è un po’ come fermarsi alla prima stazione. Mariotti non è più solo l’enfant prodige della musica italiana, ma un direttore che sta entrando nella maturità del suo percorso e che sembra pronto per il salto di qualità definitivo. Il che lo si può dedurre innanzitutto dalla padronanza tecnica del gesto e, di conseguenza, dell’orchestra, che gli sta in mano come i cavi delle marionette, pronta ad essere aggiustata con una rotazione del polso o la flessione di una falange. Anche perché davanti al podio c’è l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, che lo conosce alla perfezione e sa rispondere ad ogni suo motto sicura e scattante e modificare se stessa in corso d’opera, o di una singola frase, per assecondarlo. Che poi il pensiero che il concerto di cui si parla coincida con l’ultimo impegno sinfonico da guida stabile dei complessi del Bibiena mette addosso un certo magone.
Di certo gli anni bolognesi l’hanno formato, tant’è che oggi si ascolta un eccellente direttore ma anche un concertatore maturo: equilibri perfetti, scorrevolezza, controllo di bilanciamenti e dinamiche, attacchi millimetrici e tanta, tanta fluidità di esecuzione. Cosa manca ancora, o almeno cos’è mancato al suo debutto sul palco del Teatro Verdi di Pordenone? Un po’ di trasparenza delle sonorità, soprattutto nei momenti in cui l’orchestra alza il volume, che eccedono in pesantezza e ruvidità. Poca cosa, è pur sempre vero che l’orchestra bolognese non può certo considerarsi una vessillifera ideale di idiomaticità nel sinfonismo tardoromantico.
Però i motivi di interesse non mancano. Il Brahms della Sinfonia n. 3 in fa maggiore ad esempio gli riesce decisamente personale, nel senso che Mariotti sa svincolarlo dalla gloriosa tradizione mitteleuropea senza che lo sgrassamento delle sonorità e la freschezza lo asciughino al punto da renderlo un freddo cadavere. Ci sono tantissimi momenti pennellati con un lirismo quasi operistico o accesi da vampe incalzanti, e poi un sacco di idee, spunti e visioni da artista di razza. Qualche passaggio è un po’ affastellato, se non proprio confuso meno limpido di quanto se ne sentirebbe il bisogno, anche perché il virtuosismo che richiederebbe Mariotti nell’articolare certe misure va forse al di là delle possibilità dell’orchestra.
Il Nuovo Mondo di Antonin Dvořák gli viene ancora meglio – e quanto è difficile mantenere alto il livello della tensione in quest’opera! – grazie a una bella varietà di dinamiche e di dettagli, tanti colori, guizzi fiammanti, qualche gigionata col tempo un po’ troppo spudorata ed energia pulsante. Per il resto vale quanto detto in precedenza: cura, fantasia e tecnica a piena profusione. Infatti il pubblico esplode e non lo lascia più tornare a casa.
L’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna è morbida e precisa, fraseggia, accenta e sfuma seguendo il podio al minimo cenno, ma soffre di qualche eccesso di imbolsimento nei forti e di una cupezza troppo greve degli archi a pieno organico.
Trionfo vero e proprio a fine concerto.
Nessun commento:
Posta un commento