Il suo Nabucco, che è già ben rodato nonostante la giovane età, si esalta doppiamente nello spettacolo di Filippo Tonon che, forse involontariamente ma centrando l’effetto, lo tramuta in una sorta di Gengis Khan; la fisionomia tipicamente mongola del baritono, che già di per sé disegna un carattere ben riconoscibile sul palco, finisce per accentuare lo scontro culturale ed etnico che regge la trama dell’opera e darle un inedito vigore.
Foto Nicola Fossella |
In ogni caso l’allestimento di cui Tonon è pressoché unico firmatario e responsabile funziona a dovere. Un Nabucco di onesta tradizione che guarda al peplum e che eccede forse nell’ingenuità di qualche effetto e nell’abbondanza dell’oro (oro sui fondali, oro sulle vesti, oro sulle pelli) ma che ha una sua tenuta teatrale salda e in cui solisti e masse sono mossi quel tanto che serve per evitare la stagnazione del ritmo. La scenografia rimane quasi invariata per l’intero sviluppo dell’opera e riproduce un ambiente che va bene per tutte le stagioni: una parete di fondo che all’occorrenza può aprirsi su tre accessi delimita un praticabile di pedane parzialmente mobili che fanno pensare ai Giardini pensili di Babilonia. Tonon punta sul colpo d’occhio, soprattutto nelle grandi scene corali e nei concertati che guardano smaccatamente alla pittura, ma lo fa, va detto, con cognizione di causa.
Sono forse meno centrati i costumi (che, accanto a quello del regista stesso, portano il nome di Carla Galleri) e non perché siano brutti, non lo sono affatto, ma perché non si capisce bene dove vogliano andare a parare, mescolando un po’ di stili, gusti ed epoche senza troppa coerenza.
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Se lo spettacolo regge senza sbandamenti o cali di ritmo lo si deve anche alla mano di Jordi Bernàcer che, sul podio di una buona Orchestra di Padova e del Veneto, non si perde il palco per un secondo, sa valorizzare la semplicità quasi barbarica della scrittura senza calcare eccessivamente la mano e imprime un bel passo alla narrazione. Una buca scattante e asciutta che mantiene sempre a bolla il livello della tensione grazie all’adozione di agogiche stringenti e di una pregevole plasticità della dinamica.
Anche il resto del cast si difende dal bene al benissimo. Rebeka Lokar è un’Abigaille dai mezzi notevoli, soprattutto nell’ottava acuta – in basso invece fatica un po’ – e dal canto splendido nei momenti più lirici: l’aria che apre la seconda parte e il finale sono pregevolissimi per legato e morbidezza, ma anche per varietà di dinamiche. Scivola un po’ sulle agilità di forza e negli sfoghi drammatici, benché non le manchino volume o note. L’interprete ricalca modelli convenzionali ma c’è e prova ad emancipare Abigaille dal prototipo dell’amazzone furiosa, cercando di mettere in luce anche i patimenti della figlia(stra) e di ispezionarne, dove possibile, l’anima.
Rafal Siwek ha un bel vocione scuro e ampio, ideale per una parte, quella di Zaccaria, che il basso risolve senza troppi patemi, almeno finché la tessitura non si fa troppo acuta; qui qualche sbavatura ci scappa, ma d’altronde la scrittura è assai impervia.
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È splendida la Fenena di Annalisa Stroppa. Bella sulla scena, voce di velluto e musicista di grande raffinatezza: le basta il recitativo di sortita per dare subito la misura della sua classe. Ha voce e temperamento ma deve ancora rifinire i primi acuti Azer Zada, Ismaele, che dal passaggio in su tende ad aprire i suoni finendo per compromettere intonazione e brillantezza.
Ha la giusta ieraticità il Gran Sacerdote di Belo di Luciano Leone. Antonello Ceron è un Abdallo con squillo da Manrico, Fulvia Mastrobuono una Anna più che convincente.
Si comporta bene il Coro Lirico Veneto preparato da Giuliano Fracasso che dà il meglio di sé in un Va pensiero sussurrato come da partitura.
Trionfo per tutti, assolutamente meritato.
Recensione pubblicata su OperaClick
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