A Benedetto Lupo bastano poche note per mettere in chiaro le cose: lui non è il solito pianista e il suo non è il solito Debussy. La mano è leggerissima, sembra non affondare mai sulla tastiera ma scivolarci sopra, e il suono che ne esce, di una morbidezza appena ovattata, è pur nella sua intrinseca bellezza quanto di più naturale e sincero si possa immaginare.
Ci si chiede, ascoltandolo, cosa lo tenga lontano dai “giri che contano”, o almeno lo privi di una stabile consuetudine con le ribalte più prestigiose che sembrerebbero essere la residenza più adatta per un musicista di questo spessore.
Il concerto monografico che ha celebrato Claude Debussy (che moriva nel marzo di cent’anni fa) ha rivelato al pubblico del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone un pianista che è innanzitutto un virtuoso della tecnica – perché del suono si è già detto, ma c’è poi un dominio assoluto della tastiera, una tenuta ritmica che non si concede la minima sbavatura, il controllo di ogni singola nota anche laddove ce ne siano tantissime da mettere insieme – e non di meno è interprete asciutto, essenziale. Ogni retaggio del Debussy ammiccante e sentimentale, tutto indugi, allusioni e rubatoni, è dimenticato, cancellato. Rimane solo la musica. Nessun compiacimento nell’agogica, che è mossa quel tanto che basta per dissipare il rigore, nessuna sottolineatura: quanto è bello ascoltare quegli echi pentatonici delle Pagodes immergersi e riaffiorare dal tessuto armonico senza la smania di buttarli per forza sotto i riflettori, o le cascate di note di Mouvement (prima serie delle Images) scorrere così limpide e cristalline. E poi c’è un gusto per il piccolo gesto, per il dettaglio minuscolo a scapito dei grandi contrasti e delle esasperazioni espressive e dinamiche, le cui modulazioni sono ottenute attraverso l’incisività e la brillantezza del tocco anziché il vigore.
L’impressione che si ha, a fine concerto, è quella di avere ascoltato un devoto servitore della musica, perché una tale perfezione esecutiva può nascere solo dal rigore di chi rispetta in modo quasi ossessivo l’arte cui si pone di fronte, che lavora su ogni singola battuta finché non riesce come deve.
Insomma Debussy ringrazia, e con lui il pubblico pordenonese, che ha salutato trionfalmente il pianista a fine concerto e l’ha poi sequestrato nel foyer.
Ci si chiede, ascoltandolo, cosa lo tenga lontano dai “giri che contano”, o almeno lo privi di una stabile consuetudine con le ribalte più prestigiose che sembrerebbero essere la residenza più adatta per un musicista di questo spessore.
Il concerto monografico che ha celebrato Claude Debussy (che moriva nel marzo di cent’anni fa) ha rivelato al pubblico del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone un pianista che è innanzitutto un virtuoso della tecnica – perché del suono si è già detto, ma c’è poi un dominio assoluto della tastiera, una tenuta ritmica che non si concede la minima sbavatura, il controllo di ogni singola nota anche laddove ce ne siano tantissime da mettere insieme – e non di meno è interprete asciutto, essenziale. Ogni retaggio del Debussy ammiccante e sentimentale, tutto indugi, allusioni e rubatoni, è dimenticato, cancellato. Rimane solo la musica. Nessun compiacimento nell’agogica, che è mossa quel tanto che basta per dissipare il rigore, nessuna sottolineatura: quanto è bello ascoltare quegli echi pentatonici delle Pagodes immergersi e riaffiorare dal tessuto armonico senza la smania di buttarli per forza sotto i riflettori, o le cascate di note di Mouvement (prima serie delle Images) scorrere così limpide e cristalline. E poi c’è un gusto per il piccolo gesto, per il dettaglio minuscolo a scapito dei grandi contrasti e delle esasperazioni espressive e dinamiche, le cui modulazioni sono ottenute attraverso l’incisività e la brillantezza del tocco anziché il vigore.
L’impressione che si ha, a fine concerto, è quella di avere ascoltato un devoto servitore della musica, perché una tale perfezione esecutiva può nascere solo dal rigore di chi rispetta in modo quasi ossessivo l’arte cui si pone di fronte, che lavora su ogni singola battuta finché non riesce come deve.
Insomma Debussy ringrazia, e con lui il pubblico pordenonese, che ha salutato trionfalmente il pianista a fine concerto e l’ha poi sequestrato nel foyer.
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