22 gennaio 2018

Le Metamorfosi di Pasquale

La polvere sa dove depositarsi, quasi sempre. La riesumazione delle Metamorfosi di Pasquale al Teatro La Fenice è un'operazione interessante ma, in fin dei conti, sterile; i capolavori sono altra cosa.


Nel 2016 dalla biblioteca del castello d’Ursel, in Belgio, emersero quattro partiture di Gaspare Spontini che si credevano perdute: un melodramma buffo (Il quadro parlante, datato 1800), un dramma giocoso (Il geloso e l’audace, 1801), una cantata (L’eccelsa gara, 1806) e una farsa giocosa, Le metamorfosi di Pasquale. Quest’ultima andò in scena per la prima volta il 16 gennaio del 1802 al Teatro San Moisè di Venezia senza raccogliere grandi consensi – tant’è che il compositore scelse poi di giocarsi le sue carte all’estero – e in seguito se ne persero le tracce, come avvenne del resto per gran parte della produzione giovanile di Spontini, almeno fino all’altro ieri. A due secoli abbondanti di distanza, le Metamorfosi ritornano nella città in cui sono nate per la stagione del Teatro La Fenice che ha scelto di dare all’opera “una seconda possibilità”.

Capita talvolta che questi disseppellimenti riportino in vita capolavori dimenticati o sconosciuti, caso non molto frequente e che certamente non riguarda nemmeno alla lontana la farsa giocosa in questione. Se la musica di Spontini pare decisamente di maniera e non brilla per ispirazione ma risulta in fin dei conti piacevole, è soprattutto il libretto facilone e sbrigativo di Giuseppe Maria Foppa a scansare ogni interesse, non tanto per la trama, che non è né più né meno solida di quella dei lavori omologhi, quanto per la totale inconsistenza dei caratteri.

La vicenda si sviluppa attorno a due triangoli amorosi: Costanza, figlia del barone, ama riamata il marchese del Colle mentre il padre vorrebbe darla in moglie al cavaliere del Prato; la di lei serva Lisetta, promessa sposa di Frontino (incidentalmente cameriere del marchese), vede le sue certezze svanire quando dal passato rispunta Pasquale, una vecchia fiamma giovanile che la abbandonò per andare a cercar fortuna nel mondo.

In un gioco di travestimenti e malintesi tipicamente farsesco, Pasquale, che di fortuna non ne ha trovata nemmeno per sbaglio, viene dapprima convinto d’essere il marchese, consentendo così a quello vero di sfuggire al mandato di arresto che pende sulla sua testa in seguito a un duello con il rivale d’amore, poi illuso, sedotto e infine gabbato e truffato. Finisce che Costanza sposa il suo marchese con il benestare paterno, Lisetta si dà al cameriere e Pasquale rimane con un pugno di mosche in mano.

Di fronte alla totale latitanza di qual si voglia abbozzo di psicologia dei personaggi, puntare esclusivamente sull’azione è una scelta obbligata e, in tal senso, Bepi Morassi dimostra di conoscere il mestiere. La recitazione risulta infatti vivace e dinamica, nonché ben costruita sulla musica, le interazioni sono curate. Certo il vocabolario scenico di Morassi è su per giù quello di sempre: tra gag, balletti, una manciata di mimi a catalizzare l’azione, echi d’avanspettacolo e qualche sottolineatura di troppo, queste Metamorfosi finiscono per assomigliare molto ad altri suoi lavori del passato.

Le scene di Piero De Francesco – realizzate, come i costumi di Elena Utenti, dagli allievi della Scuola di Scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Venezia – sono semplici ma efficaci nell’indicare delle coordinate spaziotemporali immediatamente identificabili (i primi numeri si svolgono dinanzi all’ingresso di un locale, verosimilmente nei primi decenni del secolo scorso, quanto segue al suo interno) e grazie alla maneggevolezza dei pochi orpelli presenti sul palco non ostacolano la scorrevolezza dell’azione.

Il cast è complessivamente all’altezza della situazione. Il Pasquale di Andrea Patucelli è simpatico e riesce a schivare il rischio di sovraccaricare gli atteggiamenti farseschi, non ha poi alcun problema a disimpegnarsi in una scrittura vocale che non pare eccessivamente impervia.

Tocca invece a Irina Dubrovskaya la parte più impegnativa dal punto di vista tecnico: Lisetta esige agilità, una buona estensione, sicurezza ad alta quota e una discreta verve, tutte qualità che non mancano alla Dubrovskaya. Certo, rispetto ad altre prove recenti, il soprano palesa qualche tensione di troppo che intacca la brillantezza dell’emissione e, a tratti, compromette l’intonazione.

Il marchese di Giorgio Misseri ha voce leggera ma garbata, buon legato e musicalità ma potrebbe riuscire più vario ed incisivo nei recitativi.

Michela Antenucci è una Costanza all’altezza della situazione che risolve correttamente anche il suo momento solistico.

Il Frontino di Carlo Checchi è brillante ma spesso in debito di volume. Francesco Basso è un Barone ben caratterizzato mentre Christian Collia si divide tra la parte del cavaliere del Prato (troppo macchiettistico!) e quella del sergente.

Giova molto alla riuscita dello spettacolo la presenza di Gianluca Capuano sul podio e al clavicembalo. La sua è una direzione di grande praticità: leggera – il che aiuta un cast composto da voci per lo più piccole – ben equilibrata e attentissima al palcoscenico, cui la buca si incolla come un adesivo. L’Orchestra della Fenice non centra la qualità timbrica dei giorni migliori, ma se la cava senza particolari imbarazzi.

Buon successo di pubblico a fine recita.

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