3 gennaio 2018

Concerto di Capodanno alla Fenice

Il Concerto di Capodanno del Teatro La Fenice non è solo il medley nazionalpopolare a misura di pubblico televisivo che da quindici anni divide – forse nemmeno troppo – gli appassionati. Quella che passa la Rai è la seconda parte del programma, a conti fatti la meno interessante dal punto di vista musicale, la quale sarebbe preceduta da un mezzo concerto sinfonico vero e proprio che viene tristemente immolato alle ragioni della TV generalista.


Ad aprire le danze quest’anno è toccato alla Sinfonia n. 9 in mi minore, Op. 95 Dal Nuovo Mondo di Antonín Dvořák, affidata alle cure di Myung-Whun Chung il quale pare essere sempre più instradato verso una posizione di guida musicale per il teatro veneziano e soprattutto per la sua orchestra. Il Nuovo Mondo esce dalla sua bacchetta limpido e ripulito – forse persino troppo, al punto che di fronte alla trasparenza di una concertazione che mette in luce ogni singolo dettaglio ci si chiede se l’invenzione musicale che ne emerge sia davvero così interessante – il che giova moltissimo ai momenti più intimi e distesi, su tutti un Secondo movimento meraviglioso. L’approccio di Chung tuttavia palesa qualche limite dove ci si aspetterebbe un po’ di “fuoco” e, forse sì, il coraggio di accendere le polveri senza preoccuparsi troppo del buongusto e degli equilibri.

Se il direttore può cavare tanta raffinatezza di suono e nitore c’è una larga fetta di merito da riconoscere all’Orchestra della Fenice che sbava qualcosa in un paio di attacchi e nell’intonazione degli ottoni ma che per il resto si esprime al meglio delle sue possibilità.

Il concerto da Rai Uno, chiamiamolo così, date per accettate le scelte “editoriali” che ormai paiono ripetersi sempre uguali anno dopo anno, viaggia su due velocità, forse tre. I brani affidati alla sola orchestra reggono e convincono, con diversi gradi di eccellenza, mentre lasciano più d’una perplessità le arie d’opera. Se Serena Farnocchia, arrivata all’ultimo minuto a sostituire l’indisposta Maria Agresta, risolve i suoi momenti senza incertezze (la voce non è personalissima e manca di un certo corpo in basso ma è sana e ben controllata), chi davvero appare fuori contesto è Michael Fabiano. La strumento del tenore americano non è né bello né brutto, ha volume ragguardevole nell’ottava grave ma sale all’acuto senza trovare la giusta posizione sicché con l’inasprirsi della tessitura i suoni si fanno via via più opachi e schiacciati. Questa o quella per me pari sono è a dir poco problematica per intonazione e omogeneità del timbro, va un po’ meglio Nessun dorma in cui tuttavia Fabiano non riesce a coprirsi di gloria dove dovrebbe, cioè sul Si naturale.

Della prova di Serena Farnocchia si è in parte già detto: il soprano fraseggia e colora con un’espressività un po’ vecchio stile ma d’effetto, riesce a reggere il tempo assai lento che Chung stacca per il Babbino caro, dimostrandosi in possesso di fiati a prova di bomba, e regala anche una pregevole aria di Butterfly cui manca solo un briciolo di sfogo nel finale.

Nessuna riserva invece per la prova di Chung e dell’orchestra che danno il meglio di sé in una Barcarolle splendida e centrano la giusta brillantezza nell’Ouverture di Carmen e in quel che rimane dei Ballabili di Otello e della Danza delle ore.

L’Ouverture dall’Italiana in Algeri è travolgente per le accelerazioni che il direttore imprime ai crescendo (forse di gusto discutibile ma elettrizzanti) benché risulti disorientante ascoltare, al giorno d’oggi, un Rossini così sbilanciato in favore degli archi.

Che il Coro della Fenice e il suo direttore Claudio Marino Moretti siano straordinari non lo si scopre certo oggi ma il Va pensiero che regalano esalta al cubo la scrittura di Verdi.

Buona l’accoglienza di un pubblico per lo più turistico.



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