3 marzo 2017

Francesca Dego torna al Verdi di Pordenone

Il grado di separazione tra Robert Schumann e Johannes Brahms ha un nome e un cognome: József Joachim. Violinista, classe 1831, si impose giovanissimo all’attenzione del mondo musicale, guadagnandosi, tra le altre cose, la stima e l’amicizia degli Schumann. Fu proprio Joachim a introdurre Brahms nella cerchia di Robert e Clara, inaugurando un’amicizia che sarebbe sopravvissuta alla sventurata scomparsa di lui. I meriti di Joachim vanno tuttavia oltre: egli fu il dedicatario e, per certi versi co-autore (si perdoni la forzatura), del Concerto in re maggiore per violino e orchestra, op. 77, o meglio, ne stese la cadenza del primo movimento e consigliò Brahms nella scrittura della parte solista, prima di tenerlo a battesimo nel 1879.


Eppure, a dispetto delle accortezze che il compositore rivolse alla tecnica individuale del violino, il concerto risulta tutt’altro che sbilanciato a suo favore, anzi, è uno dei più fulgidi esempi di equilibrio e raffinatezza di scrittura, ove solista e orchestra giocano alla pari senza che il primo svetti sulla seconda da protagonista assoluto.

È proprio il Concerto per violino di Brahms a suggellare il ritorno sul palco del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone della brava Francesca Dego, già trionfalmente transitata da queste parti un paio d’anni fa. Al suo fianco i Mannheimer Philharmoniker, guidati dal loro fondatore e direttore artistico Boian Videnoff. L’orchestra nasce nel 2009 con il nobile proposito di offrire a giovani musicisti la possibilità di farsi le ossa prima del salto in una grande compagine e ha, com’è ovvio che sia, pregi e difetti della gran parte degli ensemble giovanili: un entusiasmo contagioso nel fare musica unito a una sana incoscienza, ma anche qualche piccola ruvidezza qua e là.

Chi invece, a dispetto della giovane età, di ruvidezze o incertezze pare non averne, è proprio Francesca Dego. La tecnica è d’alta scuola, ma già lo si sapeva, il legato magistrale perché consente, oltre alla fluidità della linea musicale, un’omogeneità di colore che non teme la minima incrinatura. Il suono del violino della Dego è infatti caldissimo e pastoso - le note gravi sembrano quasi uscire da un violoncello – eppure sempre rotondo e morbido. La sicurezza sulla tastiera è poi sorprendente: la sinistra non solo non si perde una nota, ma neppure inciampa in alcuna sbavatura di suono. Tutto è limpido e levigatissimo, sia per quanto attiene al virtuosismo, sia nelle dinamiche. Non meno impressionante è la precisione ritmica, soprattutto nell’Allegro giocoso finale, affrontato con sicurezza quasi irridente. Il tono è appassionato ma sempre nei binari di una giusta misura: anche laddove il vibrato e il calore del suono esaltino un certo sentimentalismo, non c’è mai quell’eccesso di abbandono o di ruffianeria che farebbe scadere un’interpretazione intensa nel manierismo.

Se in Brahms orchestra e direttore rimangono un passo indietro, pur in una sostanziale correttezza, senza valorizzare pienamente la scrittura orchestrale del concerto che, come si diceva, merita d’essere considerata ben oltre il mero accompagnamento al solista, nella seconda parte di concerto i motivi di interesse si fanno assai più stuzzicanti.

La Sinfonia n.4 in re minore, Op. 120 di Robert Schumann esce dalla bacchetta di Boian Videnoff con un fascino controverso ma innegabile. Si può nutrire qualche perplessità per talune scelte nella gestione “in blocco” delle dinamiche, per qualche disomogeneità negli equilibri che tende a favorire archi ed ottoni a sfavore dei legni, però alla fine si rimane conquistati dall’energia e dalla vitalità che il direttore riesce ad imprimere all’opera e dalla tensione con cui sa sostenere l’architettura della sinfonia. Non c’è insomma quel nitore analitico che consente di mettere in luce il minimo particolare, né il fascino dei fraseggi ricercati ma piuttosto un accorto lavoro sull’articolazione, sui tempi (che sono spediti ma plasmati senza eccessi di rigore) e, appunto, sui volumi, che si traduce in un’esuberanza quasi teatrale.

La gestualità di Videnoff potrebbe sembrare talmente passionale da riuscire quasi indecifrabile, non fosse che l’orchestra lo segue alla perfezione, anche in certe audaci dilatazioni della frase (soprattutto nello Scherzo): c’è sì qualche minima incertezza all’interno delle singole sezioni, ma l’insieme regge senza intoppi. I Mannheimer Philharmoniker infatti evidenziano qualche limite di precisione e intonazione nei singoli – soprattutto i violini - ma complessivamente suonano con pregevole compattezza e buona qualità timbrica.

Resta da dire dell’Interludio Sinfonico Träumerei am Kamin, tratto da Intermezzo di Richard Strauss, che ha aperto il concerto ma che ne è stato il momento meno felice, per qualche esitazione di troppo pur in una generale piacevolezza della tinta orchestrale.

Pieno successo di pubblico sia per la Dego, sia per orchestra e direttore dopo Schumann.

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