13 marzo 2017

Les Pêcheurs de Perles di Bizet al Teatro Verdi di Trieste

È vero, nell’isola di Ceylon succede poco o niente. Non è facile per un regista mettere le mani su lavori come Les pêcheurs de perles, figli della moda orientalista che a metà Ottocento imperversava nel teatro operistico europeo, in particolar modo francese. Non è facile perché questo tipo di estetica, che mirava a conquistare il pubblico con gli esotismi di un mondo lontano e favoloso, regge sulla straordinarietà della confezione piuttosto che del contenuto. Non è un teatro dalla drammaturgia forte insomma, e, nel caso specifico dei Pescatori, nemmeno d’azione (lo è in altri casi, ascrivibili soprattutto al grand opéra). 

Foto Fabio Parenzan

Per garantire una fedeltà sostanziale alla natura di tale repertorio, e renderlo accattivante, bisognerebbe essere in grado di riprodurne l’incanto, solleticare nel pubblico quel fascino onirico e misterioso che nasce dal racconto di mondi remoti e sconosciuti. Chiaramente tutto ciò appare difficile al giorno d’oggi, soprattutto se non si dispone di mezzi scenotecnici ed economici da grandi produzioni. Se poi si sceglie di metterla sul piano della tradizione, nell'accezione più frusta del termine, le insidie si fanno ancora più scoperte perché quanto detto finora emerge senza che ci sia spazio per filtri né mediazioni.

È il caso dello spettacolo di Fabio Sparvoli in scena al Verdi di Trieste, che fa della fedeltà al verbo librettiano la propria ragion d’essere. Al di là dei propositi, che non sono mai né giusti né sbagliati, a fare la differenza è la qualità della realizzazione che, nel caso specifico, è assai modesta.

Le scene di Giorgio Ricchelli riproducono con scarsa ispirazione una spiaggia sbiadita e difficilmente praticabile per gli artisti (ha senso produrre delle scenografie che ostacolano la fluidità della recitazione?); sarà l’età dell’allestimento, saranno le numerose riprese in giro per l'Italia, ma davvero l’impianto pensato da Ricchelli tradisce ormai molte, troppe rughe.

Nemmeno la regia riscatta la piattezza delle scene: Carlo Antonio De Lucia, che rimonta lo spettacolo, si limita al minimo sindacale: recitazione stereotipata e piatta sia per i singoli, sia per le masse, assoluta genericità nella definizione dei caratteri.

Foto Fabio Parenzan

Vanno decisamente meglio le cose sul fronte musicale. Oleg Caetani sa dosare tempi e sonorità al fine di garantire la giusta scorrevolezza narrativa. Il palco è sostenuto alla perfezione con un’attenzione che non scade mai nel servilismo, così come curati sono gli equilibri interni all'orchestra. Insomma Caetani svolge un eccellente lavoro di concertazione, ben spalleggiato dall'Orchestra del Verdi che risponde con buona qualità di suono e un’apprezzabile limpidezza.
Si può rimproverare al maestro solamente un eccesso di timidezza nella ricerca dei colori e nelle dinamiche, che si stempera solamente nel concertato che chiude il secondo atto.

Tra i cantanti spicca Mihaela Marcu, Léïla, che ha voce bella ed omogenea sorretta da una consapevolezza tecnica che consente di mantenere l’emissione sempre morbida e rotonda.
Jésus Léon è un Nadir corretto ma pallido, capace di legare e sfumare ad alta quota ma in debito di volume e sostegno nell’ottava grave. 
Lo Zurga di Domenico Balzani è vocalmente all'altezza della situazione. Gianluca Breda è un Nourabad forse un po’ ruvido ma forte di un'ampiezza di strumento non comune. 

Buona la prova del coro preparato da Francesca Tosi.

Ottimo successo di pubblico.

Paolo Locatelli
© Riproduzione riservata

Foto Fabio Parenzan

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