24 febbraio 2017

Il ritorno della Bohème al Teatro La Fenice

Passano gli anni ma La Bohème pensata da Francesco Micheli per il Teatro La Fenice sembra non accorgersene. Quella Parigi da cartolina, o meglio da vendere ai turisti, che fa tanto “Venezia” e che come la musica di Puccini punta a inventare il vero piuttosto che a imitarlo, continua a rivelarsi un’indovinatissima cornice per le vicende dei bohémien. Senza sconvolgere o ripensare la drammaturgia, Micheli riesce nell’impresa di creare uno spettacolo che fonde con equilibrio le virtù della tradizione con qualche strizzata d’occhio al gusto contemporaneo. L’azione è leggermente postdatata rispetto al libretto, scene e costumi non cercano né la verosomiglianza né un ideale realismo ma puntano piuttosto verso una dimensione un po’ fiabesca e un po’ bozzettistica. E il risultato convince pienamente.


Non solo, oltre alla piacevolezza visiva, lo spettacolo pare aver perfezionato ormai una fluidità d’azione che non teme cedimenti. Il secondo quadro in particolare funziona come un oliatissimo meccanismo a orologeria in cui ogni dettaglio si incastra col successivo senza inciampi, e dove le masse e i singoli si muovono con perfetto equilibrio senza sprecare un gesto o un’interazione.

Le belle scene di Edoardo Sanchi sono un ottimo esempio di funzionalità scenotecnica: ogni movimento sul palco – e ce ne sono molti, l’ambiente muta continuamente – avviene senza un cigolio.

Questa ripresa è affidata alla bacchetta di Stefano Ranzani il quale, oltre a concertare con esperienza (non gli sfugge una croma, il palco è sostenuto con attenzione, non scivola mai in scollature o sbandamenti), ha il pregio di asciugare la partitura da ogni traccia di sentimentalismo, puntando piuttosto su un’ insolita attenzione al dettaglio e alla trasparenza del suono. L’Orchestra della Fenice non trova la qualità timbrica dei giorni migliori ma garantisce piena affidabilità e precisione.

Francesca Dotto, Mimì, ha bel timbro, musicalità e una spiccata sensibilità nell’accentare e nello sfumare la frase. Il peso vocale tuttavia è ancora insufficiente per dominare l’intera scrittura della parte, in particolare il registro medio-grave pare troppo esile per fronteggiare l’orchestra pucciniana.

Discorso opposto per Matteo Lippi, più ordinario nel fraseggio ma in possesso di mezzi ragguardevoli: la voce non è grandissima ma riempie la sala senza problemi, soprattutto nel registro acuto che suona facile e insolente. Il colore fresco e schiettamente tenorile è quello adatto per Rodolfo.

Mattia Olivieri si conferma talento tra i più interessanti della sua generazione. Il bel timbro scuro e la salda tecnica, ma soprattutto la personalità nel tenere il palco, consentono al giovane baritono di tratteggiare un Marcello di grande sostanza e carattere.

Si disimpegna bene Laura Giordano, Musetta dalla vocalità leggera ma ben sostenuta e dalla giusta verve.

Solido il Colline di Luca Dall’Amico. William Corrò è uno Schaunard convincente, pur con qualche incertezza negli estremi acuti.

Matteo Ferrara, Benoît, è sempre una certezza. All’altezza l’Alcindoro di Andrea Snarski e il Parpignol di Bo Schunnesson. Puntuali gli interventi di Emiliano Esposito e Umberto Imbrenda (doganieri).

Il Coro del Teatro La Fenice, preparato da Claudio Marino Moretti, ormai conosce l’opera anche capovolta e lo dimostra siglando una prova impeccabile sia sul piano musicale che attoriale.

Ottima l’accoglienza del pubblico a fine spettacolo.



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