Se si prende uno spettacolo tra i più importanti degli ultimi vent’anni – la Carmen di Calixto Bieito lo è senza ombra di dubbio – e lo si affida a un direttore d’orchestra dalla personalità eccentrica e delle abilità stregonesche nel distillare suoni e teatro, il risultato è garantito.
Lo spettacolo di Bieito mette da parte l’oleografia delle Carmen in costume, spogliando palco e personaggi di ogni orpello per restituire all’opera tutta la sua forza drammatica e teatrale. Carmen è una storia d’amore e di morte, la storia di una donna che sceglie di rivendicare il proprio diritto di essere libera fino alle estreme conseguenze.
Nelle scene di Alfons Flores non c’è spazio per il folclore: la presenza del popolo è ridotta all’osso, la corrida vagamente accennata dalla sola sagoma di un toro (quello del brandy Osborne), zingari e contrabbandieri si muovono su vecchie Mercedes scassate. L’azione è spostata in un passato prossimo degradato, un sud periferico e torrido fatto di miseria e violenza. La Spagna è richiamata esplicitamente dalla sola bandiera che sventola su un pennone. Ed è una Spagna polverosa ed assolata in cui si scontrano ed intrecciano due mondi opposti ma profondamente simili, figli della stessa cultura machista: il mondo militare, fatto di soprusi, corruzione e nonnismo (in cui non è difficile scorgere il fantasma della dittatura franchista) e quello dei contrabbandieri. Due fronti della maschilità più rozza e volgare, caratterizzati da una virilità esibita e deviata. Le donne sono il collante tra questi poli, o meglio la merce di scambio, donne abusate con la complicità dell’alcol, prostitute per necessità piuttosto che per scelta sin dalla più tenera età.
Il lavoro del regista sui personaggi in scena è curato nel minimo dettaglio fino all’ultima delle comparse, il ritmo è indiavolato, salvo poi trovare pace in momenti di assoluta poesia (come il Preludio al terzo atto).
Il disegno luci di Alberto Rodriguez Vega è un piccolo capolavoro.
Myung-whun Chung, oltre ad essere l’alchimista del podio che tutti conoscono, ha un’altra grande virtù: sa raccontare quanto accade sul palco, valorizzandolo al massimo livello. Già ne diede prova lo scorso anno, quando parve animare di un’inedita poesia la pallida Madama Butterfly di Mariko Mori. La Carmen di Bieito ovviamente non necessita di nessuna defibrillazione ma può giovarsi di una lettura orchestrale che marci nella sua stessa direzione. E Chung, fin dalle stilettate che aprono l’Ouverture, dimostra di calarsi alla perfezione nel quadro dipinto dal regista. Al di là della compattezza narrativa e della preziosità della concertazione, che quando si parla del maestro coreano sono date per scontate, c’è infatti un’aderenza al palco per quanto attiene i colori, le suggestioni, che lascia di stucco. Pur nella ricchezza di finezze e nuances, nella perfetta esposizione del dettaglio e dei piani sonori, Chung non dà mai l’impressione di suonarsi addosso o di voler stendere in una calligrafia ricercata la partitura. Questa Carmen è puro teatro, è un pugno in pancia.
Basterebbe prendere quell’Habanera scabra e secca, staccata senza alcun compiacimento ritmico e con un’asciuttezza quasi ruvida dei violoncelli, o il finale primo, che stende come un montante ben assestato, oppure ancora il tema del Toreador, sorridente e civettuolo nei Couplets, cupo di una malinconia soffocata e vagamente sensuale quando lo riprendono, sempre i celli, nello scontro finale di terzo atto, quasi sardonico allorché risuona ancora nelle ultime battute.
Tutto perfetto dunque? Sì e no. C’è infatti un “ma”: i tagli. Non si parla solo dei dialoghi, di cui non resta che qualche traccia, ma anche di parecchia musica (l’amputazione del concertato dei contrabbandieri “Quant au douanier, c’est notre affaire” grida vendetta!).
Ciò detto, l’Orchestra della Fenice suona eccellentemente in ogni sezione: scattante, levigata, brillante, e il coro preparato da Claudio Marino Moretti è una meraviglia.
Veronica Simeoni, Carmen, canta bene, a tratti benissimo; la voce è bella e luminosa, soprattutto in alto, e regge senza patimenti la scrittura. Il disegno di Bieito però richiede qualcosa di diverso in termini di personalità e attitudine: la Simeoni è una protagonista troppo “buone maniere” per questi bassifondi degradati, le manca quella sensualità brada e animalesca, anche un po’ volgare, che è la cifra essenziale di Carmen per come l’ha pensata il regista.
Il Don Josè di Roberto Aronica soffre di qualche eccesso di ruvidezza nel canto ma tiene valorosamente la scena.
Ekaterina Bakanova, Micaëla, è il genere di artista che quando sta sul palco vive per il personaggio, senza sprecare né un gesto, né una nota. Ogni intenzione, sia essa una semplice occhiata, uno scatto, un pianissimo o un dettaglio di fraseggio, è in funzione della musica e, soprattutto, del teatro.
Vito Priante è senza dubbio un cantante raffinato e sensibile, capace di modellare il canto con eleganza e morbidezza, ma la parte di Escamillo sembra stargli ancora larga, soprattutto in termini di volume e spessore.
Meritano un elogio Laura Verrecchia (Mercédès) e Claudia Pavone (Frasquita) che sono bravissime entrambe, così come Armando Noguera e Loïc Félix, rispettivamente un Dancaïre e un Remendado di alto profilo.
Buona la prova di Matteo Ferrara, Zuniga; all’altezza il Moralès di Francesco Salvadori.
Bravissimi sotto ogni punto di vista i Piccoli Cantori Veneziani diretti da Diana D’Alessio.
Successo pieno, ovazioni da stadio per Chung. Da non perdere.
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