Per Calixto Bieito, Tannhäuser è un outsider, uno di quelli sempre fuori posto, deboli e impacciati, che non sanno adattarsi agli schemi della vita sociale. E sulle persone così, disallineate ma con una sensibilità iperreattiva, i conflitti pesano come macigni.
Il centro della questione non è la religione, non è la fede, non è l’amore. Il punto focale dell’opera è l’uomo, è il processo dialettico che forma una personalità e regola le relazioni, con se stessi e con il mondo. Insomma la classica contrapposizione tra natura e ragione. Siamo dalle parti dell’abc freudiano: da una parte le pulsioni animalesche, istintive, dall’altra la necessità di controllarle per vivere armonicamente in una collettività. Tannhäuser sta nel mezzo, in un limbo, troppo disadattato per il mondo degli uomini (quello delle regole, non ha nemmeno gli abiti giusti per entrarci), troppo represso per abbandonarsi agli impulsi che lo tormentano. Da qui la sua sofferenza. È un tema che in Wagner torna, non sarà geniale pensarci ma può funzionare. Infatti funziona alla grande, perché Bieito è un signor regista e sa farlo passare senza inciampare in elucubrazioni o simbolismi lambiccati.
Ci sono due luoghi: quello di Venere, una foresta capovolta (atto primo), quello degli uomini, un ambiente artificiale dall’architettura gelida (atto secondo). Il terzo ne è la sintesi: gli alberi sfondano le barricate del palazzo, lo divorano e ne diventano parte integrante. Istinto e ragione trovano il punto d’incontro, ed è quello che siamo noi tutti. È questa la redenzione di Tannhäuser, la risoluzione della dialettica in un unicum che è, appunto, l’Io, la persona.
Non può che essere così, la tendenza verso uno solo dei due poli crea uno squilibrio: Wolfram da un lato, che finisce per essere travolto dalla risacca delle pulsioni soffocate e perdere tutto, l’ipersessualità coercitiva di Venere dall’altro, un erotismo grottesco e sbagliato, deforme e sottosopra come il suo Venusberg.
L’idea è brillante, renderla con tale coerenza e semplicità è cosa da grande artista.
Tutto va di pari passo in questo Tannhäuser, anche sul versante musicale, a partire dalla direzione di Omer Meir Wellber che fa un Wagner teso e incalzante, più di sangue che di metafisica, e dunque perfettamente in linea con il palco. Il suono evidenzia qualche limite solamente nei forti, tendenzialmente opachi, ma è per il resto pregevolissimo. L’Orchestra della Fenice infatti rende uno splendido servizio alla musica e al direttore, confermandosi duttile e compatta ma anche capace di raffinatezze timbriche e dinamiche.
Merita poi un plauso speciale l’ottima Roberta Ferrari, catapultata in buca per salvare la recita del 28 gennaio, sostituendo al pianoforte (elettronico) l’arpista ammalata.
Anche il protagonista è un sostituto: Paul McNamara in luogo dell’indisposto Stefan Vinke. Il tenore ha uno strumento chiaro e di volume modesto ma regge con onore la scomodissima tessitura della parte e si rivela, soprattutto nel terzo atto, interprete interessante. Molto positiva la prova di Liene Kinča, Elisabeth dalla bella voce di soprano lirico.
Christoph Pohl è un Wolfram von Eschenbach di tutto rispetto: timbro fresco, tecnica d’alta scuola, presenza scenica notevole. Più debole, sia sul piano della personalità, sia vocalmente, la Venus di Ausrine Stundyte.
Corretto o poco più Pavlo Balakin, Hermann. All’altezza tutti gli altri.
Il Coro del Teatro La Fenice preparato da Claudio Marino Moretti giganteggia persino più del solito. Davvero magnifico.
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