2 gennaio 2017

Una Bohème incidentata al Verdi di Padova

Nello strano mondo dell’opera il confine tra il trionfo e il tonfo è sottile e sdrucciolevole: la fragilità degli equilibri tra le componenti e i linguaggi in gioco è tale che basta una piccola incrinatura a inceppare anche il meccanismo più oliato. Nella Bohème andata in scena al Teatro Verdi di Padova il 29 dicembre tuttavia, più che di una piccola inconvenienza teatrale si potrebbe parlare di un vero e proprio brutto tiro della sorte.


Andiamo con ordine: a poche ore dallo spettacolo il tenore Giorgio Berrugi viene colpito da una bronchite, apparentemente lieve, che con il passare delle ore peggiora lasciando il cantante di fatto afono all’alzata di sipario, quando ormai è troppo tardi per cercare un sostituto. Berrugi si sacrifica – con generosità e senso di responsabilità, va riconosciuto – affinché la recita possa andare in porto e faticosamente sostiene la parte, ma lo fa come può, cioè accennando e accomodandosi la scrittura.

Purtroppo, alla prova dei fatti, una Bohème senza tenore non regge o quantomeno zoppica vistosamente. È un peccato, non solo per Berrugi che avrebbe tutte le carte in regola per portare a casa un eccellente Rodolfo, ma anche perché il cast assemblato per questa produzione si rivela di assoluto valore, a partire dalla Mimì di Maija Kovalevska che dopo un primo quadro incolore, dal terzo prende confidenza – molto riuscita l’esecuzione di Donde lieta uscì - e chiude con un finale di notevole intensità. La voce non è particolarmente attraente ma ampia senz’altro e, fatta salva qualche tensione in acuto, ben controllata. Si apprezza inoltre un sensibile lavoro di scavo della parola e una recitazione misurata ma d’effetto.

“Molta civetteria, un pochino di ambizione e nessuna ortografia”: difficile trovare un difetto a Mihaela Marcu che, oltre alle qualità vocali - il timbro è suadente, l’emissione omogenea e rotonda in ogni registro – ha il temperamento scenico adatto per disegnare una Musetta di carattere e il giusto provocante. La Marcu è poi attrice di talento fuori dal comune.

Il Marcello di Gezim Myshketa è ormai una piacevole certezza: lo strumento è di bel colore brunito e si espande con facilità, ben sostenuto da un’emissione che consente pregevoli morbidezze e slanci spavaldi. L’interprete è brillante e ha nella vivacità scenica e nell’estroversione le proprie frecce più appuntite.

Gabriele Sagona è un Colline solido, dalla voce ampia e di bella pasta. La buona esecuzione della “Zimarra” gli vale un entusiastico applauso a scena aperta. Daniel Giulianini, Schaunard, ha anch’esso mezzi considerevoli e un’apprezzabile confidenza col palcoscenico.

Davide Pelissero (Benoît) e Christian Starinieri (Alcindoro) dosano con misura la comicità delle rispettive parti senza scivolare in spiacevoli eccessi di macchiettismo. All’altezza della situazione Luca Favaron (Parpignol), Luca Bauce (Sergente dei doganieri) e Riccardo Ambrosi (Doganiere).

Eduardo Strausser firma una direzione interessante e personale, il che è già molto per un titolo così inflazionato e noto. C’è molta freschezza in questa Bohème, molta delicatezza, il che non significa affatto sentimentalismo o leziosità ma piuttosto leggerezza, frutto di sonorità tenui e ben impastate e di un’attenzione minuziosa alle dinamiche. Allo stesso modo la drammaticità non è ottenuta attraverso un abuso del volume ma piuttosto tramite i contrasti e la variazione del colore orchestrale.

Qualche eccesso di prudenza e qualche inciampo nella narrazione qui o là ci scappa, complici probabilmente i problemi del protagonista e lo scarso rodaggio dello spettacolo, ma non di meno ci sono certe finezze e attenzioni al dettato pucciniano non comuni. Due esempi: la risata dei bohemiens alla scacciata di Benoit è davvero “a tempo, deciso” - come scrive Puccini - e la “lunga pausa” sulla corona che suggella la morte di Mimì è giustamente molto prolungata.

L’Orchestra Filarmonia Veneta non è sempre impeccabile ma sa adeguarsi alle indicazioni del podio con grande duttilità, trovando soprattutto negli archi delle pregevolissime risorse timbriche.

Qualche pasticcio lo combina invece la banda fuori scena.

Ben si comportano il Coro Lirico Veneto preparato da Stefano Lovato e il Coro Voci Bianche “Cesare Pollini” diretto da Marina Malavasi.

Resta da dire dello spettacolo, interamente firmato da Paolo Giani Cei, che è affascinante ma non completamente risolto. L’ambientazione è contemporanea nel contenitore (scene, costumi e luci) ma non nei contenuti, o meglio, fatta la tara di alcune idee originali e ben trovate, rimane una discreta regia tradizionale assai più riuscita e convincente nelle scene poco affollate che nei momenti di maggiore confusione (troppo rigido e disorganizzato il secondo quadro). La comicità è ben risolta, senza eccessi, così come la recitazione dei singoli.

La scena, fissa per l’intera durata dello spettacolo, riproduce un ambiente spoglio, il che andrebbe benissimo per raccontare una soffitta finalmente povera e fredda, anche se più che una soffitta pare che il regista voglia calare la vicenda in un capannone, forse un dormitorio, colmo di cianfrusaglie e detriti che rimandano alle occupazioni dei protagonisti (libri, quadri, leggii...). Anche La barriera d’Enfer si giova di questo clima gelido e spettrale, riuscendo efficace, principalmente in virtù di una recitazione ben curata (lo scontro fisico, violento, tra Marcello e Musetta nel finale terzo è un bel momento di teatro).

Più problematico invece il secondo quadro in cui si fatica a seguire il filo della drammaturgia, con il caffè Momus che diventa una sorta di night club.

Insomma ci sono molti spunti, alcuni ben realizzati, rimane tuttavia sullo sfondo l’impressione di un’eccessiva freddezza emotiva, di una Bohème quasi “antiempatica”, ma dati i problemi della serata è plausibile che tale effetto fosse amplificato da una tensione generalizzata degli artisti. Senz’altro è uno spettacolo che meriterebbe di essere rivisto in condizioni ottimali.

Tuttavia, a dispetto degli imprevisti, l’accoglienza del pubblico è stata decisamente calorosa, in particolar modo per Giorgio Berrugi, trascinato a forza sul palco dal regista e salutato con affetto dal Verdi.

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