Mentre Tibor Kováč sgranava le implacabili cascate di note del Concerto n. 2 per violino e orchestra con una tenuta ritmica da macchina da guerra, pensavo che benché fosse tutto giusto, giustissimo, quella bellezza trascendentale, spietata, della musica di Béla Bartók, pretendesse di più. Forse un briciolo di carattere, di personalità o estroversione, forse di coraggio. Intendiamoci, Kováč le note ce le ha tutte - o quasi, qualche pasticcio qua o là ci scappa, me è cosa da poco - e in un lavoro di tale complessità, l’uscirne indenni è già un successo. Non solo: ci sono frasi ostiche che gli riescono con una morbidezza e una facilità di legato che lascia esterrefatti. Il suono del suo Stradivari è poi bello, luminoso, piccolo ma ficcante. C’è tuttavia nel suo gusto una stilizzazione che diventa quasi intimismo, se non timidezza, a tratti eccessiva, soprattutto per una musica tanto eclettica, varia nei caratteri e nei colori.
Certo il risultato è affascinante, perché un Bartók così pudico e trattenuto, così liricizzato, non è comune e merita di essere ascoltato, però l’impressione di un certo contegno, di un navigare a vista, a tratti c’è. Insomma Tibor Kováč è senza dubbio un eccellente, forse straordinario strumentista, ma per imporsi sul palco come solista manca qualcosa.
Chi invece sta benissimo al proprio posto, cioè il podio, è Juraj Valčuha il quale dopo aver sorretto con perizia – e una certa prudenza – le sorti del concerto di Bartók, si esibisce in un’affascinante interpretazione della Sinfonia n. 2 in re maggiore, op. 73 di Johannes Brahms, puntando più o meno nella stessa direzione classicheggiante e apollinea, ma con risultati assai più entusiasmanti. Nella lettura di Valčuha, è evidente, c’è uno studio profondo della partitura e un accorto lavoro di bulino su ogni singolo inciso, su ogni sfumatura dinamica. Ne esce per l’appunto un'esecuzione olimpica, equilibratissima e levigata in cui ogni dettaglio emerge con chiarezza e inserendosi in un disegno coerente e pensato. Il suono è perfettamente bilanciato e “giusto”, l’articolazione brillante e non priva di fantasia ma sempre nei binari dell’eleganza.
Lo scotto da pagare a una impostazione simile è la rinuncia a qualcosa in termini di abbandono e “passionalità”, ammesso e non concesso che tutto ciò ci debba essere per forza.
L’Orchestra Haydn è precisissima, trasparente, e può vantare alcune sezioni, su tutte gli archi gravi, capaci di sonorità calde e piene. Se a tratti si avverte un’eccessiva secchezza, o quantomeno una debolezza nella rotondità dell’amalgama, è cosa forse imputabile più alla concertazione cameristica e “chiara” che non a qualità intrinseche dell’orchestra.
La cortese ma tiepida l’accoglienza dopo Bartók, diventa trionfo a fine concerto.
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