Se fossi un regista, davanti al Flauto magico di Mozart non saprei dove sbattere la testa. La drammaturgia è contorta, eccentrica, i riferimenti culturali e musicali sono tanti e divergenti. In fin dei conti la scelta più saggia e vincente – Michieletto l’ha dimostrato di recente – è puntare su una chiave di lettura netta e svilupparla con coerenza, dimenticandosi del resto.
Foto Fabio Parenzan |
Valentina Carrasco conosce i ferri del mestiere (la scuola è quella della Fura e si vede), ha delle idee, forse anche troppe ma tutto sommato non così sovversive come è parso a parte del pubblico del Verdi di Trieste, e una discreta abilità nel realizzarle. Purtroppo anche lei si perde nella giungla del Flauto, tra esotismi e simbolismo, sacralità e pruriti terreni, metafisica e patafisica.
La Carrasco sceglie di lavorare su una regia a concetto: Isis e Osiris sono due bambini che creano lì per lì, sul momento, la storia di Tamino & Co., giocando con dei pupazzetti e una casa di bambole. I personaggi diventano creature in balia di due pargoli capricciosi e imprevedibili, come divinità nietzschiane.
La premessa è furbetta e non originalissima ma potrebbe funzionare, però a una sola condizione: la riduzione della trama a mera fiaba per bambini. Allora sì, i conti tornerebbero, ovviamente con qualche accettabilissima forzatura.
Invece la regista si lascia prendere la mano e mescola le fantasie infantili con ombre massoniche, i giochi con evocazioni funerarie (la tomba del padre di Pamina), connota le brame di Monostatos di significati sessuali per nulla fanciulleschi. Il risultato è confuso e a tratti incoerente. Non manca poi qualche evitabilissimo strale di denuncia sociale, come la “polizia femminista” che multa i misogini del tempio.
Insomma alla Carrasco si può rimproverare d’essersi persa per strada, di aver voluto strafare anziché perseguire con ostinazione un taglio drammaturgico che poteva funzionare.
Ciò detto la vanno riconosciute una notevole abilità nel gestire recitazione e ritmo e una buona dose di inventiva. Gli artisti sono mossi con spigliatezza, l’azione è molto curata sia nei protagonisti, sia nelle masse. Il racconto è fluido e senza impacci. E tutti questi non sono meriti da poco, per un regista.
Il pubblico l’ha sommersa di fischi. Meritati? No. No perché lo spettacolo, sul piano tecnico e realizzativo, è tra i migliori che si siano visti a Trieste negli ultimi tempi, al di là delle falle nella drammaturgia. Se poi nel 2017 si parla ancora di “atto dissacrante” o “vilipendio al genio di Mozart” per simili inezie, c’è solo da dispiacersi del fatto che ci sia una fetta di pubblico che non si è accorta di cosa sia il teatro, e di dove stia andando da cinquant’anni a questa parte. Peccato per loro, non sanno cosa si perdono.
Le scene di Carles Berga sono ben realizzate e belle, i costumi di Nidia Tusal meno.
Nessun dissenso invece per gli altri interpreti che sono tutti all’altezza della situazione e offrono – merce rara! – una Zauberflöte convincente in ogni componente (o quasi).
Pedro Halffter Caro concerta con attenzione agli equilibri interni e al palco, giocando più sull’articolazione che sui colori. Tensione, nessuna leziosità, suono asciutto ma mai secco, poco vibrato e un’apprezzabile freschezza narrativa. Insomma un Mozart del nostro tempo, peraltro suonato alla grande dall’Orchestra del Verdi, in forma smagliante.
Tra i cantanti la migliore è Elena Galitskaya, Pamina. La voce è leggera ma penetrante, l’emissione sempre morbida ed espressiva, sia nei recitativi, sia nel canto spianato.
Merto Sungu, Tamino, fatica nella prima aria ma è per il resto convincente e, nel secondo atto, anche qualcosa in più. Funziona il Papageno di Peter Kellner che ha voce di bel timbro e una buona comunicativa. Debole nell’accento e nel volume (ma anche nell’intonazione) la Regina della Notte di Katharina Melnikova.
David Steffens è un Sarastro giovanile ma sufficientemente autorevole, Motoharu Takei un efficace Monostatos. La Papagena di Lina Johnson è brillante ma vocalmente non irresistibile. Horst Lamnek è un Oratore corretto.
Meritano di essere menzionati i tre geni delle ottime Elena Boscarol, Simonetta Cavalli e Vania Soldan, così come sono davvero brave le tre dame: Olga Dyadiv (Prima), Patrizia Angileri (Seconda) e Isabel De Paoli (Terza). Affidabilissimi e solidi Giuliano Pelizon e Francesco Paccorini impegnati come sacerdoti e armigeri.
Bene, al solito, il Coro del Verdi preparato da Francesca Tosi.
Come detto, successo pieno per cantanti e direttore, furibonde contestazioni per la regista (che non l’ha presa benissimo…).
Un’ultima considerazione: fa bene il Sovrintendente, o chi per lui, a mettere in stagione spettacoli come questo, ben sapendo di andare incontro a reazioni contrastanti. Il pubblico deve avere la possibilità di conoscere anche un teatro che vada oltre il pedissequo svolgimento delle didascalie (succede in tutto il mondo da molti decenni), con buona pace di chi maledice i registi empi e traditori, colpevoli di pensare – e di chiedere al pubblico di pensare! – anziché sbobinare il libretto.
Foto Fabio Parenzan |
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