30 gennaio 2017

Die Entführung aus dem Serail a Treviso

L’idea di Robert Driver è semplice ma potrebbe avere una sua efficacia. Die Entführung aus dem Serail diventa un film muto di inizio Novecento, sullo sfondo vengono proiettati spezzoni in bianco e nero (a cura di Lorenzo Curone) e didascalie, nel classico stile del cinema degli albori. Le premesse per uno spettacolo interessante ci sarebbero, a patto che venissero sviluppate con coerenza. Invece il tutto rimane una suggestione vaga, o meglio, lo spunto di partenza finisce per fungere da tappabuchi laddove l’originalità latiti.



Per il resto lo spettacolo può essere archiviato nello scaffale dell’onesta tradizione: tradizionale la recitazione (ma curata, va detto), tradizionali le scene, tradizionali le scappatoie per risolvere la comicità.

L’ambientazione ricalca un esotismo stereotipato e già visto, scene e costumi (Guia Buzzi) sono sul filone delle turcherie all’opera come le abbiamo sempre conosciute. Al minimo sindacale il disegno luci di Roberto Gritti.

Gli interventi più significativi interessano invece il testo: i parlati sono in italiano, il canto in tedesco. Niente di scandaloso, non fosse che la scelta si traduce in una continua frammentazione dell’azione e in una fastidiosa disomogeneità di stile e linguaggio.

Luci (poche) e qualche ombra di troppo per quanto attiene l’esecuzione musicale. A Jeanette Vecchione-Donatti la scrittura di Konstanze sta ancora larga. Il registro medio-grave è pallido, quello acuto più sonoro ma troppo spesso spinto e forzato. Le agilità ci sono, seppur scolastiche, il legato e l’omogeneità tra i registri ancora no.

Martin Piskorski è un tenore da tenere d’occhio: la voce è sufficientemente ampia e di bel timbro, la musicalità fuori dal comune. Per Belmonte però non basta, si sente infatti la mancanza di un più saldo controllo del passaggio e dei primi acuti che escono spesso schiacciati, se non proprio sporchi.

Solido e simpatico l’Osmin di Manfred Hemm, al di là di qualche ruvidezza nell’emissione.

Brava la Blonde di Daniela Cappiello, squillante e disinvolta sulla scena. Il Pedrillo di Marc Sala è vocalmente garbato ma piuttosto esile.

Bruno Praticò se la cava senza problemi nei pochi interventi di Selim.

Francesco Ommassini, sul podio di una discreta Orchestra Regionale Filarmonia Veneta, tiene insieme i pezzi con buon passo teatrale. La sfortunata disposizione dell’orchestra (buca a livello della platea, percussioni e ottoni sui palchi di barcaccia) comporta qualche qualche pasticcio nella tenuta ritmica e negli equilibri interni. Il palco è ben sostenuto, il suono pulito e asciutto benché tendente a una certa omogeneità di tinte.

Ben si comporta il Coro del conservatorio Benedetto Marcello di Venezia preparato da Francesco Erle.

Buona ma sbrigativa l’accoglienza del non foltissimo pubblico trevigiano.

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