Dalla seconda topica Freudiana sappiamo che l’Io, l’identità psichica di un essere umano, nasce dal conflitto continuo tra due istanze antitetiche: l’Es, ovvero l’istinto, la voce della natura, e il Super-io con le regole codificate comportamentali e morali. Il regista Aron Stiehl nell’affrontare Das Liebesverbot, opera prima di Richard Wagner scelta per inaugurare la stagione 2015 del Teatro Verdi di Trieste, parte da qui. Le istanze della mente divengono fazioni sociali in conflitto: da un lato c’è il popolo con il suo bisogno di amare e godere – e il richiamo all’inconscio animalesco è evidente sia nelle scenografie naturalistiche che ne accompagnano l’azione, sia negli abiti barbari – dall’altro c’è la legge opprimente che esige ordine e geometria. Chiaramente il rigore formale di Friedrich, il Vicario che vorrebbe sopprimere ogni licenziosità e diletto nel popolo, cozza con la totale sregolatezza di quest’ultimo, anche sotto il profilo estetico. In fondo la bellezza, con i suoi canoni e le sue regole, è una convenzione sociale: questo popolo selvaggio invece è volutamente sgradevole, brutto, ambiguo, qualcosa a metà strada tra gli hippy e i Neanderthal, senza vincoli estetici, morali o comportamentali. La legge viceversa, quindi Friedrich, è formalmente inappuntabile, elegante, e contrappone al caotico carnevale popolano un’asciuttezza quasi rassicurante. Il fulcro dell’esistenza sta nella mediazione tra l’ordine e il caos, quella che spetta all’Io come alle istituzioni umane, la ricerca del giusto compromesso che soddisfi entrambe le pulsioni divergenti.
Il concetto registico non è dei più originali ma funziona perché realizzato con coerenza e cognizione tecnica: il coordinamento dei protagonisti in scena è attento ed intelligente, sia nei solisti sia nel coro (ottimo sotto ogni profilo, sia musicale che attoriale), scene e costumi sono funzionali al disegno. Qualche forzatura sul versante comico non inficia il risultato finale.
Ottima la prova dall’orchestra, in grandissimo spolvero, guidata da Oliver von Dohnányi. Il direttore sapeva infondere buon ritmo alla narrazione prestando attenzione al palcoscenico, senza sacrificare la cura del suono orchestrale, sempre compatto e levigato, vario nelle dinamiche e nei colori.
Eccellente la prova di Lydia Easley, soprano dalla voce importante e dalla tecnica agguerrita, perfettamente a proprio agio nella scrittura della parte di Isabella in cui il declamato wagneriano che verrà è più che presagito. Altrettanto convincente Tuomas Pursio, Friedrich di grande presenza e dalla vocalità sana. Corretto e squillante Kurt Adler, Luzio; piacevole l’istrionico Brighella di Reinhard Dorn. Francesca Micarelli si disimpegnava con impagabile freschezza nei panni di Dorella mentre Mikheil Sheshaberidze, Claudio, risolveva la parte con parecchie difficoltà. Positiva la prova di Anna Shoeck, Mariana educata e musicale. Tutte all’altezza della situazione le moltissime parti minori, con una menzione speciale per l’ottimo Ponzio Pilato di Federico Lepre.
Pubblico scarso ma soddisfatto.
Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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