3 gennaio 2015

Daniel Harding dirige il concerto di Capodanno alla Fenice

Pronti via, fuoco alle polveri. Chi detesta lo zumpappà verdiano contro i detrattori di polche e valzeroni viennesi per quella che pare essere ormai l’unica vera tradizione di capodanno: la guerra tra tifosi dei Wiener e chi – Rai innanzitutto – crede che l’Italia non abbia niente da invidiare agli ori del Musikverein. In fondo si sa, se c’è una cosa che gli italiani sanno fare bene, questa è dividersi su qualunque cosa. 

Ad ogni modo quest’anno, a fare da degno contraltare a Mehta, impegnatissimo ad evidenziare col pennarello giallo ogni rubato e stirare i rallentandi fino alla noia, c’era un certo Daniel Harding, già salito sul podio della Fenice per il capodanno 2011.



Il concerto veneziano, al di là del clima nazionalpopolare e disimpegnato, avrebbe diverse ragioni d’interesse. Alcune restano clamorosamente disattese, altre superano le aspettative, così l’esito della prova oscilla tra due poli senza vie di mezzo. Delude la prima parte di concerto, dedicata a Beethoven (Overture Die Weihe des Hauses ed Ottava sinfonia), con un’orchestra ingolfata, pesante e spenta ed un Harding troppo attento a far tornare i conti. 

Convince invece – dopo una plumbea Overture da La Gazza Ladra di Rossini – la porzione “televisiva” del capodanno. Merito di Maria Agresta e Matthew Polenzani che sono bravissimi, soprattutto lei, e di Harding che indovina un finale primo dalla Bohéme da lacrime agli occhi per delicatezza e poesia, stacca con gusto il Can-can dalla Danza delle ore e soprattutto dimostra, a chi non se ne fosse ancora accorto, quanto Verdi abbia poco a che fare con lo zumpappà. Il Va pensiero è magico, elegantissimo, la cabaletta di Violetta brilla di luce e joie de vivre (e la Agresta ha un mibemolle che fa venire giù il teatro). Il brindisi è frivolo il giusto.

Applausi per tutti, anche dove non sarebbe il caso. Prosit.

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