4 dicembre 2014

Simon Boccanegra di Verdi al Teatro La Fenice

Secondo un vecchio adagio “per fare Verdi servono le grandi voci”, luogo comune non privo di ragioni, tuttavia si tende spesso a dimenticare quanto Verdi esiga innanzitutto un grande direttore d’orchestra, in particolar modo nelle opere della maturità. Non per insormontabili difficoltà tecniche ma per valorizzare i piani narrativi, mettendo in luce la complessità di implicazioni psicologiche, politiche e sociologiche nascoste tra le pagine della partitura.



Che Myung-Whun Chung sia un direttore di altissimo profilo è fuori di dubbio ma quello che riesce a cavare dal testo del Simon Boccanegra, opera inaugurale della stagione 2014-15 del Teatro La Fenice di Venezia, ha del miracoloso. Al di là dell’assoluta perfezione tecnica (orchestra sugli scudi per duttilità timbrica e ritmica), dell’attenzione al palcoscenico che non resta indietro di una semicroma per tutta la durata dello spettacolo, ciò che cattura, nell’esegesi del maestro coreano, è la profondità dell’interpretazione. Sin dal Prologo, tetro ma mobilissimo, squarciato da bagliori di furia e pennellate di sofferenza, si percepisce lo spessore dell’analisi di Chung. Il duetto Amelia-Simone del primo atto accumula un’intensità commovente che esplode nell’agnizione, la scena del gran consiglio è pervasa da una luce sinistra, il finale coglie alla perfezione quell’indefinita atmosfera sospesa tra la serenità dell’addio e la dolente malinconia di una vittoria monca, sia per Simone che per Fiesco. Una lettura assolutamente memorabile quella di Myung-Whun Chung, aiutato dagli eccellenti professori d’orchestra, che gli è valsa un trionfo personale a fine recita.

All’altezza del podio la prova del cast, dominato da un Simone Piazzola in stato di grazia sia per tenuta vocale, sia per spessore interpretativo. Il giovane baritono ha personalità, ha timbro pregevole e sa rifinire il canto misurando e differenziando ogni frase nei colori e nelle dinamiche.

Maria Agresta ha voce di bellissimo timbro e una spiccata sensibilità nel porgere, l’emissione è fresca e il fraseggio spontaneo; solamente il registro acuto mostra qualche segno di fatica, sicuramente dovuto all’altissima densità di recite cui la cantante è sottoposta.

Ottima la prova di Francesco Meli, Gabriele Adorno dalla vocalità splendente e dal fraseggio appassionato. Intenso e commovente Giacomo Prestia nei panni di Jacopo Fiesco, basso dalla voce ampia e, benché non più freschissima, morbida e sana nell’emissione.

Sorprendente il Paolo Albiani di Julian Kim per smalto e pienezza dello strumento ma anche per autorevolezza scenica. Luca Dall’Amico era un Pietro di lusso. 

Eccellente la prova del Coro della Fenice, preparato da Claudio Marino Moretti.

Rimane l’allestimento, firmato per scene e regia da Andrea De Rosa, che ha il merito, non certo esaltante, di non compromettere la riuscita complessiva dello spettacolo, allineandosi alla tradizione più innocua. La vicenda è srotolata con linearità fin troppo elementare, la recitazione ordinaria.

Paolo Locatelli
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